Castelli d’aria

Di città invisibili se ne contano a milioni, tante quante la fantasia umana è riuscita a generare nel corso della sua lunga e prolifica esistenza. Italo Calvino arrivò a riconoscerne ben 55 – divise in undici categorie – , e a queste non possiamo non sommare anche la mitica Atlantide di Platone, l’El Dorado dei conquistadores spagnoli, la “Città Ideale” dipinta da Piero della Francesca e tutte le altre città invisibili impresse sulle pagine, nelle pellicole cinematografiche e sulle tele degli artisti più visionari.

Ma ciò che neppure le menti più ispirate hanno visto mai, privilegio invece a me concesso, sono gli operai che tirano sù gli edifici, asfaltano le strade, stendono chilometri di cavi e di tubi per gli impianti di acqua, luce e gas che daranno vita e vivibilità a quei paesaggi urbani inesistenti, frutto soltanto dell’immaginario.

Vestono il giubbino giallo fosforescente a strisce orizzontali, scarpe antinfortunistiche ed elmetto di sicurezza. Sono uomini e donne tra i venti e i cinquantacinque anni, spagnoli, latinoamericani, rumeni. Gli operai delle città invisibili lavorano in Spagna, per l’esattezza a Paracuellos del Jarama, nell’hinterland madrileno, e si aggirano nelle aree adiacenti il centro di formazione professionale per disoccupati dove anche io, in qualità di insegnante di lingua italiana (per quei pochi fortunati che vinceranno un tirocinio lavorativo di due mesi in Italia), mi ritrovo a condividere con loro aule e intervallo ricreativo.

E così, dal lunedì al venerdì, tutti i pomeriggi sono testimone oculare di incredibili avvenimenti: a turni rotativi, quegli operai costruiscono di sana pianta intere città. Ma città, è bene sottolinearlo, rigorosamente invisibili! Armati di teodolite prendono le misure di terreni e marcano confini; con lenza e gesso tracciano linee immaginarie per fondamenta e impianti fognari; progetto alla mano, spianano, sbancano, scavano e spostano la terra oggi, per rimetterla domani nello stesso posto; srotolando il doppio decametro e piantando picchetti metallici, allungano cavi e tubi inesistenti; dall’alto della cabina di pilotaggio, fanno avanti e indietro con il braccio della gru per sollevare laterizi e armature d’acciaio che si trasformano in muri trasparenti, mentre alcuni, con cazzuola e cemento, tramezzano gli interni che altri, poco dopo, smonteranno.

I miei alunni e gli altri operai di Paracuellos si nutrono di speranze e del sussidio per disoccupati che lo stato elargisce. Intanto, fanno corsi di formazione professionale e prendono specializzazioni di tutti i tipi. Isabel è da tre anni che manda curricula a imprese del settore edile, ma senza risposta. I suoi ex colleghi nuotano nelle stesse melmose acque. I numeri, purtroppo, non stanno dalla loro parte. La Spagna è al primo posto in Europa per case vuote (3,4 milioni), molte delle quali invendute o in mano alle banche, e gli esempi di città fantasma – queste, malauguratamente, tutt’altro che invisibili – , cresciute nella notte come funghi e rimaste pressoché disabitate e incompiute, ce ne sono parecchi su tutta la penisola.

Tra i casi più eclatanti compaiono la borgata di Seseña, 40 chilometri a sud di Madrid, e Ciudad Valdeluz, in provincia di Guadalajara, nata per dare alloggio a 30 mila abitanti, mentre ad oggi ce ne vivono soltanto 2.100. Quest’ultima, tra l’altro, è servita da una desolante quanto costosissima stazione dell’AVE (treno ad alta velocità), guarda caso realizzata sui terreni riqualificati di una parente di Esperanza Aguirre, ex presidente della Comunidad de Madrid e pezzo da novanta del Partito Popolare.

Un dubbio inquietante inevitabilmente mi assale: con tale disponibilità di alloggi invenduti, potranno un giorno i miei alunni e gli altri disoccupati di Paracuellos del Jarama smettere di costruire città invisibili e tornare a edificare case in serie, vie d’asfalto, borgate di palazzi e città di quelle vere? O sono condannati anche loro all’invisibilità, lontano dai cantieri e da uno stipendio dignitoso, fuori dalla vista di un diritto al lavoro sempre più strabico e di un modello di sviluppo sempre più sordo?

Seduti su una panchina ai bordi di una strada senza uscita, scrutiamo l’orizzonte per vedere dove andranno a parare i superstiti dello scoppio di quell’enorme bolla speculativa. Magari anche noi, che una casa nostra di mattoni e cemento non ce l’avremo mai, nel frattempo ci lasciamo prendere dall’ottimismo e iniziamo a fantasticare, tirando su i muri di una nuova e strabiliante città invisibile. E dentro la città, che dico una casa, che se la possono permettere tutti? Un castello d’aria tutto per noi ci facciamo costruire! Gli operai per i lavori, inutile ribadirlo, sappiamo dove sono, e l’esperienza di certo non gli manca.

Andrea Ortu

Intervento pubblicato anche su https://quadernispagnoli.wordpress.com/

 

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