Rischi e certezze sull’affievolimento della specialità regionale sarda nella riforma costituzionale

Da Antonio Dessì, ex assessore regionale all’Ambiente e rappresentante del Comitato per il No al referendum costituzionale del 4 dicembre prossimo, riceviamo e pubblichiamo. 

Qualora il voto referendario confermasse una riforma costituzionale caratterizzata da corpose antinomie e da innumerevoli rinvii a provvedimenti attuativi credo che dovremo attenderci un lunghissimo periodo di incertezze e di contenziosi. Una prospettiva che si può misurare anche dalle contrastanti interpretazioni emerse sul tema delle specialità regionali.

C’è stato un primo momento nel quale tanto i sostenitori della riforma quanto i suoi avversari hanno dato per scontato che questo problema fosse risolto o quantomeno accantonato dal tredicesimo comma dell’articolo 39 del testo sottoposto alla consultazione referendaria. Quella relativa certezza sembra ora venuta meno anche a livello nazionale tra i sostenitori del NO, che l’avevano sollevata per rilevare criticamente una contraddizione discriminatoria fra il trattamento restrittivo esplicitamente previsto dalla riforma per le Regioni ordinarie e quello formalmente garantito alle Regioni speciali. Ancorché quelle certezze siano state messe in discussione da un’analisi più approfondita della questione, non pare per contro di riscontrare un’analoga problematicità tra i sostenitori del SI.
La questione ha una qualche rilevanza non solo metodologica. Lo scopo di chi intende difendere il principio, la sopravvivenza e lo sviluppo della specialità dovrebbe essere quello di escludere oltre ogni ragionevole dubbio che essi vengano compromessi da nuovi interventi legislativi statali, ancor più se di natura costituzionale generale. Perciò non dovremmo mai rischiare di accettare acriticamente quanto ci viene proposto sulla base di ragionamenti tanto schematici quanto poco ancorati al metodo giuridico dell’interpretazione sistematica. Sappiamo infatti tutti che nessuna norma giuridica entra nell’ordinamento generale operando secondo le intenzioni asserite da chi l’ha scritta e da chi l’ha approvata: ogni nuova disposizione è destinata a operare secondo le regole complessive del sistema nel quale si inserisce.

Perciò già un primo elemento dubitativo di natura sistematica dovrebbe essere considerato del tutto legittimo sul mero piano del realismo. Si può realisticamente pensare che le autonomie speciali possano non dico espandersi, ma almeno conservare le garanzie di trattamento differenziato che stanno all’origine della loro particolarità costituzionale e statutaria? Ragioni storiche dicono chiaramente il contrario. Le autonomie speciali hanno vissuto oltre un ventennio, tra il 1948 e il 1970, del tutto isolate e soggette a una severa limitazione delle proprie competenze all’interno di un ordinamento rimasto centralizzato, che le ha a lungo considerate dei corpi estranei. Solo quando sono state istituite le Regioni ordinarie anche le speciali hanno potuto dispiegare le proprie funzioni in un ambiente corrispondente all’articolazione regionalista della Repubblica prevista dalla Costituzione. La differenza tra l’ambiente precedente agli anni ’70 e quello che si creerebbe con la riforma in discussione è che allora un ordinamento non completato con quell’articolazione rappresentava un’anomalia, mentre domani a costituire un’anomalia sarebbero le Regioni speciali, non garantite, bensì circondate, più che da una “clausola di garanzia”, da un cordone sanitario, quasi messe in quarantena.

Come è noto, il tredicesimo comma dell’articolo 39 della riforma intenderebbe salvaguardare lo statu quo provvisorio, creatosi con la riforma del 2001, fino alla revisione degli Statuti, da attuarsi “previa intesa” tra lo Stato e ciascuna delle Regioni speciali interessate. Ma tale previsione è monca proprio della disciplina costituzionale dell’intesa, in difetto della quale non è dato conoscere gli organi fra i quali essa dovrebbe intercorrere, né quali procedure e garanzie possano far sì che la legge costituzionale in cui dovrebbero tradursi le revisioni statutarie recepisca il carattere “pattizio” delle modifiche stesse, rispetto alle quali il Parlamento resterebbe del tutto libero sia sul se sia sul cosa decidere.

Per dare un indizio della rilevanza del problema, la riforma del centrodestra sottoposta a referendum nel 2006 disciplinava la procedura dell’intesa riservando alle due Camere la decisione conclusiva attraverso una votazione a maggioranza dei due terzi, con la quale avrebbe potuto essere superato ogni eventuale disaccordo della Regione interessata. Fu una proposta fortemente avversata in sede politica e dottrinaria e in ogni caso fu respinta dal voto referendario sull’intera riforma.

Il problema resta perciò talmente irrisolto da rendere difficile prevedere che se ne verrà rapidamente a capo, il che rende impensabili revisioni statutarie di tipo espansivo, per di più alla luce delle precedenti considerazioni sul nuovo ambiente ordinamentale generale che la riforma in campo prefigura.

Si potrebbe dire che comunque lo “statu quo” resterebbe congelato e ritenere questa una condizione conveniente. Ma anche di questo c’è da dubitare a ragion veduta.

Il tredicesimo comma dell’articolo 39 infatti non pone affatto al riparo le potestà legislative delle Regioni speciali dagli effetti delle “clausola di supremazia speciale” contenuta nell’articolo 117 modificato dalla riforma in discussione.

Il nuovo articolo 117 infatti reintrodurrebbe dalla finestra ciò che era stato espulso dalla porta con la riforma del 2001, ossia il principio della prevalenza del punto di vista dello Stato su quello delle Regioni anche nelle materie di loro competenza. Si tratta del principio dell’”interesse nazionale” che da limite di merito alle potestà legislative regionali diverrebbe addirittura funzione giuridica propulsiva dell’interferenza attiva della legislazione statale nell’ambito di autonomia delle Regioni.

Quel principio è rimasto formalmente contenuto negli Statuti speciali anche dopo la riforma costituzionale del 2001, ancorché costretto a restare silente per il fatto che esso è stato espunto, perciò reso non più invocabile, dal sistema generale. Non è questione decisiva cercare di capire se esso potrà esser fatto valere o meno mediante lo strumento della specifica legge statale di cui al nuovo articolo 117. Il fatto è che esso riapparirà come principio generale dell’intera regolamentazione delle funzioni dello Stato e dei suoi rapporti con l’insieme delle Regioni e pertanto nessuna generica clausola di garanzia potrebbe evitare che esso venga invocato in qualsiasi altra forma e con qualsiasi altro strumento, diretto, ossia legislativo, ovvero indiretto, cioè come argomento da far valere a favore dei poteri statali nelle sedi del confronto istituzionale e in quelle del contenzioso giurisdizionale.
Ciò consente infine anche di addentrarci in forma più ancora fondatamente dubitativa sul tema della rappresentanza, nel nuovo Senato, delle Regioni speciali, i cui Statuti prevedono l’incompatibilità tra la carica di Consigliere regionale e quella di componente di una delle due Camere.

Nel diritto costituzionale non si è mai dato spazio, da parte della dottrina e degli interpreti, al concetto di abrogazione tacita. Evidenti motivi di garanzia hanno sempre sconsigliato di farvi ricorso, tant’è che in genere non lo si ammette. Persino nella vicenda dell’Alta Corte di Giustizia della Regione Autonoma della Sicilia la Corte Costituzionale non vi ricorse e l’assorbimento delle relative funzioni in Capo alla Corte Costituzionale fu sancito con due sentenze che dichiararono l’incostituzionalità sopravvenuta, “per esaurimento della finalità provvisoria” delle norme dello Statuto speciale siciliano, entrato in vigore nel 1946, come effetto del dispiegarsi delle previsioni di una norma costituzionale espressa, la VII disposizione transitoria della Costituzione entrata in vigore nel 1948.
Il fatto è che la discussione sulla vigenza o meno, in caso di approvazione della riforma costituzionale, dell’articolo 17 dello Statuto speciale della Sardegna rischia di essere addirittura oziosa, alla luce della realtà giuridica. Quella disposizione speciale non risulterà abrogata né espressamente né tacitamente, né implicitamente dalla riforma eventualmente approvata. Non avrà effetto abrogativo su di essa il nuovo articolo 122, il cui contenuto non è applicabile alle Regioni speciali in nessuno dei suoi commi: basti considerare che il primo comma di quest’articolo riguarda materie che gli Statuti speciali, come modificati dalla legge costituzionale n. 2 del 2001, demandano alle apposite “leggi statutarie”, mentre il secondo è ovvio corollario delle disposizioni sulla nuova composizione del Senato, ma è appunto collocato in una norma che regola il sistema regionale ordinario. Non potrà considerarsi abrogata in ragione della successione nel tempo, perché è una disposizione speciale e in quanto tale resistente alle sopravvenute modifiche delle norme generali. Non potrà essere disapplicata dai Consigli regionali, che non hanno il potere di disapplicare le norme costituzionali e statutarie.

Per adeguare lo Statuto speciale della Sardegna alla riforma costituzionale occorrerà una nuova specifica legge costituzionale. Oppure quella norma dovrà essere rimossa da una sentenza della Corte costituzionale in via di giudizio incidentale o di giudizio su un eventuale conflitto di attribuzioni. Fino ad allora, lì è e lì resterà. Modificarla sarà il primo degli adeguamenti necessari, nel quale “il sistema” rinnovato dalla riforma reclamerà l’applicazione delle sue regole. E prevedibilmente “per li rami”, intese o no, è del tutto lecito paventare, se non addirittura prevedere che quello sarebbe il solco ineluttabilmente tracciato per le specialità dall’eventuale approvazione referendaria della riforma costituzionale.

Antonio Dessì
Ex Assessore regionale della Sardegna.
Comitato per il NO di Cagliari

 

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