La riforma colpisce l’autonomia speciale. Ecco perché dire no

Da Michele Piras, deputato di Sel, riceviamo e pubblichiamo questo intervento sul referendum sulla riforma costituzionale.

L’impronta della riforma costituzionale è, al di la di ogni ragionevole dubbio, di fronte agli occhi di tutti: una colossale compressione delle prerogative autonomistiche che si abbatte come una scure sulle Regioni a statuto ordinario ma che, con ogni evidenza, non mette al riparo quelle a statuto speciale.
Non solo perché la “clausola di supremazia” prevista nel testo costituzionale riformato è neutralizzata solo in parte (e in via transitoria) dalla disposizione che esclude le Regioni a statuto speciale dagli effetti della riforma. La questione infatti non è meramente “tecnica”, ovvero le differenti interpretazioni possibili, ma politica.

Il clima non è favorevole, per usare un eufemismo. E questo già prima che si generasse, con questa riforma, una ulteriore distanza fra Regioni “speciali” e Regioni “ordinarie”. E le argomentazioni di chi addirittura sostiene che la riforma rafforzerebbe gli statuti speciali (in ragione dell’introduzione dello strumento dell’intesa fra Stato e Regione) non sono che il grimaldello per accreditare ulteriormente la tesi dell’ingiustificato privilegio, che già ha fatto capolino nel dibattito parlamentare sulla riforma e che attraversa trasversalmente tutte le formazioni politiche, nonché i due fronti referendari.

Attraverso il riassorbimento da parte dello Stato delle prerogative attribuite pochi anni fa dalla riforma del titolo V alle Regioni (in ossequio poco ragionato all’onda della devolution leghista) e con l’introduzione della “clausola di supremazia” si è aperta la breccia che condurrà (in caso di vittoria del Sì) le truppe in casa nostra, sia per forzare un immediata armonizzazione dello Statuto alla nuova Costituzione, sia attraverso una prevedibile nuova serie di contenziosi di fronte alla Corte Costituzionale.

Emilio Lussu e gli altri padri costituenti della specialità della Sardegna, non intesero la loro battaglia per la realizzazione delle Regioni a statuto ordinario solamente come atto di generosità nei confronti degli altri popoli d’Italia, semmai concepirono quella come una vertenza necessaria a costruire una cornice complessiva di maggiore tutela per le Regioni speciali stesse, attraverso un passo ulteriore verso la prossimità dell’azione di governo, in assenza di una reale percorribilità dell’opzione federalista e precisamente in ragione della palese fragilità degli statuti speciali di fronte a uno Stato centralista.
Oggi è praticamente impossibile non cogliere nel quadro politico una volontà prevalente di segno esattamente opposto. E questo non può non essere considerato un elemento di preoccupazione per chi resta fermamente convinto che la realizzazione di una democrazia di prossimità sia la forma più avanzata di modernizzazione del Paese.

Si volga lo sguardo all’attività legislativa di questi tre anni di governo Renzi. Essa ha già determinato una progressiva centralizzazione dei processi decisionali. Basterebbe pensare alle valutazioni dell’impatto ambientale ad esempio e – a ben vedere – appare chiaro come la questione energetica sia precisamente uno dei nodi fondamentali, che si connette a temi dirimenti come quello del consumo di suolo e della sovranità democratica.

La riforma è il suggello ordinamentale che si appone a una serie di leggi (Jobs act, riforma della scuola, sblocca-trivelle, riforma della Rai, legge elettorale) che indicano un elemento di forte verticalizzazione dei processi decisionali, sia nella dimensione sociale che in quella istituzionale. Così come la progressiva cancellazione dell’elezione diretta negli enti intermedi di governo del territorio (e oggi del Senato) sta costruendo una democrazia di grado inferiore, meno densa, meno partecipata dai cittadini.

La linea è chiara e le autonomie non sono al riparo, nemmeno se speciali, nemmeno se tutelate da clausole transitorie che – comunque – prevedono un percorso di progressiva armonizzazione che, intesa o non intesa, non potrà che essere un processo che conformerà gli statuti speciali allo spirito della nuova Costituzione: centralista, per l’appunto.

Certo i numerosi casi di corruzione e gli scandali, oltre che la diffusa percezione di una sostanziale incapacità di intervento attivo sulla grave crisi economica, amplificata dal cappio del patto di stabilità e del pareggio di bilancio, non hanno certo diffuso un sentimento di fiducia nei confronti delle Regioni. Ma è certamente anche per questo che la difesa delle autonomie e la promozione di una stagione di riforma in senso sovranista del nostro statuto appare oggi alquanto ardua e quindi piuttosto deboli gli sforzi profusi da parte dei sostenitori del Sì per rasserenare i cittadini sul tema.
E persino la loro insistenza sull’intangibilità della nostra specialità disvelano ciò che essi realmente pensano, ovvero che si tratta di una riforma tutt’altro che friendly nei confronti del sistema delle autonomie.

In conclusione io penso che il ragionamento sulla riforma costituzionale, anche quello intorno alla nostra autonomia speciale, vada collocato nel contesto generale in cui ci muoviamo e che se anche valesse la tesi tecnico giuridica dei sostenitori nostrani del Sì (cosa sulla quale nutro dubbi profondi) noi dovremmo andare a votare No anche per tutelare l’autonomia altrui. Ed in questa maniera rafforzare anche la nostra.

Michele Piras

Deputato Sinistra italiana-Sel

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