La favola fighetta della discriminazione degli italoparlanti in Sardegna

Un gruppo di coraggiosi consiglieri comunali di Cagliari ha richiesto di inserire la lingua sarda fra le materie per il concorso per accedere a posizioni nell’amministrazione comunale. Si tratterebbe di un ulteriore passo verso il riconoscimento dello status della lingua sarda come lingua normale, verso il diritto alla parità linguistica e a non essere discriminati per la lingua che si vuole utilizzare. In questo caso, si tratterebbe della lingua propria della Sardegna, un monumento culturale che il nostro popolo ha elaborato collettivamente nel corso di almeno 1300 anni. Una lingua ormai riconosciuta da molteplici atti legislativi dell’UE, dello Stato e della Regione come meritevole di tutela e che può ben aspirare alla parità linguistica con la lingua dello Stato.

Apriti cielo. Dice Anselmo Piras, esponente della destra cagliaritana in Consiglio comunale, che il sardo non esiste, essendo frammentato in dialetti. In effetti, è vero, anche se oggi lo è un po’ di meno. Tuttavia, una lingua minoritaria si riduce spesso in questo stato, è (come si dice) “minorizzata”, proprio dalla mancanza di riconoscimento. Per questo, caro Anselmo Piras, per promuoverla sono necessari tanti passi. Magari alcuni avranno pochi effetti, ma tutti saranno utili per fare uscire chi è emarginato dal suo stato. Non semplicemente dicendogli: “imita il potente”, ma affermando che anche il suo modo di esistere, il suo modo di parlare, è assolutamente degno e merita di essere considerato al pari degli altri.

Più sorprendente è l’osservazione di Davide Carta (Pd) e del consigliere Sergio Mascia di Sel, che paventano una “discriminazione” degli italofoni o di chi “non ha seguito corsi di lingua sarda” a scuola (che, notoriamente, non esistono proprio per lo status emarginato del sardo). Questo argomento è ripreso con molta verve da un cantante lirico, che nel suo blog parla addirittura di “nazismo”, a proposito dei poveri sostenitori della lingua sarda (!).

Si tratta di una posizione sorprendente. Infatti, da che mondo è mondo, le minoranze, le lingue minacciate, le donne, i poveri, i disabili, insomma chi viene discriminato dagli assetti gerarchici che la storia ha prodotto, subisce politiche che mirano a garantire loro una posizione di privilegio relativo, e di protezione. Tali politiche si chiamano, in inglese, affirmative action, in russo vydvizhenie (promozione) e in francese, in modo anche utile per quello che voglio dire, discrimination positive.

Il problema è che nella società sarda, e nella sua cosiddetta sinistra, anche in versione fighetta, pochi hanno coscienza dei costi umani e sociali che la discriminazione della lingua sarda è costata, soprattutto alle classi popolari, in termini di destini personali, di autostima personale e collettiva, e quindi di ricchezza culturale per la società in cui viviamo. E in pochi riescono a pensare che non di “progresso” o evoluzione dal “dialetto” alla “lingua” si sia trattato, ma di un processo di italianizzazione forzata e di vera e propria eradicazione del sardo, a tratti perfino violenta, soprattutto nelle scuole rurali. Con tremendi lasciti nelle coscienze e nelle psicologie.

Purtroppo, ci pensa la cronaca a ricordarci che non l’italiano, ma il sardo è ancora oggi pesantemente discriminato. La “narrazione” della discriminazione degli italoparlanti in Sardegna, semplicemente, è una favoletta consolatoria di chi si oppone all’uguaglianza e al riconoscimento delle differenze. Chi parla il sardo, non lo può fare nello spazio pubblico senza sfidare la vergogna e l’essere assimilato a un “grezzo”, proprio a seguito delle politiche di discriminazione che hanno prodotto questo stigma, questa etichetta condivisa e terribile soprattutto per le donne, le più stigmatizzate per la loro sardofonia. Chi osa farlo, come in questi giorni in una scuola ogliastrina, si ritrova davanti proibizioni che ancora una volta ci ricordano la gerarchia un po’ coloniale in cui viviamo. La sinistra non la vede, non la vuole vedere, per cui per loro tutto questo non esiste. La destra, la gestisce e spera, da 200 anni, di lucrarci piccole fortune e di rappresentare i potenti “di fuori”, come facevano i Podatari sardi dei feudatari iberici nei loro feudi. Il problema del sardo per loro non esiste, come non esiste la comprensione per l’umiliazione e l’emarginazione.

Eppure, farebbe piacere sentire da Anselmo Piras, da Davide Carta e da Sergio Mascia una parola, una sola parola, per le centinaia di migliaia di sardi che, nelle generazioni passate, sono stati esclusi da tutto, perché non parlavano italiano. Oppure, un po’ di simpatia per la quantità impressionante di bocciati nelle scuole sarde, un dato che risulta correlato in tutta Italia con la presenza di minoranze linguistiche. Un po’ di comprensione per le persone che si devono vergognare della lingua con cui esprimerebbero meglio il proprio essere, i propri sentimenti, la propria vivacità. Così, liberamente.

Sarebbe bello se nei loro ragionamenti comparisse un po’ di rispetto e di simpatia per il sardo come lingua, e dunque per tutti noi come comunità che l’ha creato, l’ha parlato, lo parla e intende salvarlo e farlo vivere nel futuro. Sarebbe bello se alla prossima barzelletta che si racconta sul sardo che si esprime male in italiano reagissero come sono sicuro reagiranno per le barzellette sui disabili, sugli ebrei, sui “negri” e sui “froci”. Perché di questo, cari Piras, Carta e Mascia, stiamo parlando. Di discriminazione vera e di emarginazione linguistica che si assomma ad altre forme di emarginazione. E che spesso serve perfino per giustificarle, perché induce a ritenere i sardofoni “ignoranti” o, come si esprime Davide Carta secondo la stampa, persone che “ancora” non si sanno esprimere in italiano. Praticamente handicappati linguistici.

Invece, niente. Come di fronte ad altre richieste di parità, come per il matrimonio omosessuale, per la parità di genere nelle rappresentanze istituzionali o altrove, e per altre battaglie in tutto e per tutto simili al riconoscimento della parità linguistica, chi è maschio, etero, bianco, ricco, “studiato”, e non ha disabilità è pronto ad urlare subito “ma così ci discriminate” qualora qualcuno proponga misure a tutela delle minoranze! Senza sapere che, naturalmente, sono tutte misure che discriminano proprio chi è un privilegiato come loro. Esattamente come le tasse discriminano i ricchi. E che questo non è solo giusto, ma è sacrosanto e fondante per ogni convivenza civile in qualsiasi società avanzata.

E’ una vicenda che illumina, molto più di altre, il fatto che la sinistra è ormai quasi interamente composta da fighetti benpensanti, che vivono, come dice il papa, in una rassicurante “bolla di sapone”. Quella dei loro privilegi, anche culturali.

Alessandro Mongili

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