Occhio agli scampi, mangiano plastica: uno studio dell’Università di Cagliari

Gli scampi, crostacei-gourmet ad elevato interesse commerciale, ingeriscono particelle di microplastica. E quei frammenti che mai e poi mai avremmo piacere di mangiare finiscono nelle nostre tavole. Non solo. Grazie a una particolare struttura presente nel loro tratto digerente, nota con il nome ‘mulino gastrico‘, che assolve alla stessa funzione dei denti nei mammiferi, gli scampi sono in grado di triturare e sminuzzare le microplastiche. I frammenti sempre più piccoli vengono quindi eliminati nell’ambiente e divengono a loro volta potenziali contaminanti per animali marini più piccoli.

Lo dice uno studio di un pool dell’Università di Cagliari, ricercatori e docenti del Disva, il Dipartimento scienze vita e ambiente, realizzato in collaborazione con i colleghi dell’Università Politecnica delle Marche. La ricerca è stata ora pubblicata dalla rivista ‘Environmental Science and Technology’. “Si stima che negli ultimi settant’anni siano stati prodotti oltre otto miliardi di tonnellate di rifiuti plastici in tutto il mondo, di cui oltre l’80 per cento è disperso nell’ambiente, e la maggior parte arriva in mare”, spiega il professor Alessandro Cau, dell’ateneo di Cagliari. Il risultato? Da incubo. “Una grande quantità di questi rifiuti si trasforma col tempo in minuscoli frammenti, chiamati microplastiche, che, per le loro ridotte dimensioni, possono essere ingerite dagli organismi marini”.

Lo studio maturato al Disva – pubblicato anche su un periodico della American chemical society e sullo Smithsonian magazine – ha messo in luce che il ‘percorso’ inquinante della plastica, veicolato da animali come gli scampi in grado di triturare la plastica accumulata nell’ambiente marino, è più lungo, persistente e pervasivo di quanto si potesse prevedere fino a oggi. “Potenzialmente – dicono i ricercatori -, gli scampi potrebbero essere solo i primi di una lunga lista di animali marini che hanno un ruolo attivo nel triturare la plastica già accumulata nell’ambiente“. La scoperta pone un quesito: quanta può essere la porzione di plastica accumulata nell’ambiente che ha subito una ‘manipolazione biologica‘ nel corso dei decenni? Per il team del Disva potrebbe essere una frazione molto importante, sino ad ora non considerata.

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