Uda, detective privato: “La paura delle intercettazioni, la nuova psicosi”

Un investigatore privato te lo aspetti con lo sguardo scuro, il fare ombroso, la camminata guardinga. Mario Uda, 64 anni, di cui oltre trenta passati tra Squadra Mobile e Criminalpol, ha lo sguardo aperto, il fare cordiale, il saluto vigoroso. Fa l’investigatore privato. Troppa esperienza per permettersi di abbandonare tutto, troppa gente che gli chiedeva consigli, aiuto, speranza. Il resto lo hanno fatto le sue due figlie e la loro curiosità femmina. “Dopo tanti anni d’esperienza posso confermarlo: le donne arrivano sempre un minuto prima. Con due assi come loro al mio fianco, sei anni fa abbiamo aperto gli uffici della ‘Isi, Investigazioni e Sicurezza.Info’. Sara è un segugio sulle questioni finanziarie e gli accertamenti patrimoniali; Alessia un buldozer sulla parte amministrativa. A seconda dei casi, lavorano con noi dai 3 ai 5 collaboratori. Più un tecnico del computer, anzi, un mago”.

La crisi feroce di questi anni, non sembra aver infastidito il settore: tra Cagliari e Provincia sono operative una decina di agenzie. Una trentina quelle in tutta la Sardegna. Con una peculiarità: i clienti nuoresi e sassaresi scendono al sud e si affidano ad agenzie del cagliaritano. Raramente capita il contrario. “C’è diffidenza, ma il lavoro non manca. Il rischio che qualcuno si improvvisi, esiste. Lo testimoniano i clienti che arrivano da noi delusi dal pressapochismo incontrato. Ci vuole preparazione per fare questo lavoro. E molto tempo trascorso sulla strada”.

Già, la preparazione: come si diventa investigatori privati? Frequentando costosi master? Dopo un tormentoso passato tra le squadre speciali della polizia? Uda sorride: “Cinismo, spregiudicatezza, tecnica. Sono questi gli strumenti che bisogna saper usare tutti i giorni. Un bravo detective, oggi, è soprattutto un buon manager, un fine analista, un consulente scrupoloso di politici e avvocati. Non è un mestiere che si impara. O si è tagliati o è meglio lasciar perdere. C’è poi un attaccamento particolare alla propria terra, alla propria gente, alle proprie tradizioni che rende speciale la nostra professione. Io, per esempio, a Milano non lavorerei mai, non saprei nemmeno da dove iniziare. Qui, quando fisso un cliente negli occhi ne scruto le fragilità, i dubbi, le speranze. Sono uno di loro, capisco cosa vogliono, di cosa hanno bisogno. In continente, sarebbe inevitabilmente diverso”.

Al primo posto, nella top ten delle motivazioni che spingono dietro la scrivania di un investigatore, si piazzano, come da manuale, il fallimento dei rapporti sentimentali; le corna come si diceva una volta. Seguono le riscossioni crediti, la concorrenza sleale tra soci, lo spionaggio industriale, l’infedeltà dei dipendenti, le consulenze sulle indagini penali, lo stalking.

“I casi di infedeltà li risolviamo al cento per cento ma è un tema che non mi appassiona, le storie d’amore non sono il mio forte. Mi coinvolgono di più le indagini di natura penale, in fondo aver lavorato per tanti anni al fianco di vari magistrati mi ha lasciato un bel segno”.

Un fenomeno nuovo è quello dei genitori che fanno seguire i figli: vogliono sapere chi frequentano, come usano i soldi, cosa fanno fuori casa. “Nelle grandi città sono molte le mamme che ci chiedono di scoprire la vita privata dei loro ragazzi, hanno paura dell’uso di droghe o dell’alcol. Si tratta di signore borghesi, agiate, in preda a un forte stato di ansia. Stessa cosa per i clienti i cui familiari sono affetti da ludopatia. E’ il caso di quelli che hanno genitori anziani, che magari sperperano il patrimonio giocando. A quel punto fanno di tutto per poterli interdire. Noi pediniamo, documentiamo, filmiamo e poi facciamo un report”.

Come ovvio, l’uso di tecnologie e attrezzature sofisticate ha rivoluzionato il mondo dell’investigazione privata. Essere più tecnologici rispetto ai concorrenti riduce i tempi (e i costi) e aumenta, ovviamente, le chance di risoluzione dei casi. Uda conferma. “Fino al 2006 occorreva andare a Milano, a Roma, in Svizzera per reperire materiale di livello, con un dispendio di risorse e di tempo insopportabile. Fui lungimirante: nel 2006 capii che il lavoro stava cambiando e acquistai un software molto potente, un’apparecchiatura in grado di individuare microspie, microcamere o altri sistemi che violano la riservatezza. Un gioiello. Coi tempi che corrono, quella delle intercettazioni è diventata una vera e propria psicosi. A Cagliari, manager, uomini pubblici e politici hanno l’incubo di essere spiati. Lo ammetto: non mi sarei mai immaginato di risolvere un caso navigando su Facebook”.

Donatella Percivale

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