Il Kenya delle contraddizioni raccontato da Angelita Caredda, capo missione di “Terre des hommes”

Da una parte: grattacieli, centri commerciali, ville lussuosissime e laboratori tecnologici, animati dalla rampante classe media e da migliaia di turisti; dall’altra: baraccopoli col nulla intorno dove le uniche cose abbondanti sono la povertà, l’analfabetismo e tutta la gamma possibile di privazioni. Benvenuti a Nairobi, frullato della contraddizione più potente dell’economia attuale: la diseguaglianza. La capitale è la sintesi, (im)perfetta, di un Paese- il Kenya – che poggia solidamente su queste disparità spaventose di vita e di prospettive; nello stato africano ci sono due luoghi da record dell’orrore: Dadaab e Kibera, rispettivamente il più grande campo profughi al mondo e una tra le più estese bidonville dell’Africa, alla periferia della capitale keniota. Attutire quest’impatto devastante è impresa titanica, ma alcuni ci provano.

Tra questi c’è Angelita Caredda, capo missione di “Terre des hommes”, l’organizzazione non governativa, nata in Svizzera nel 1960, è attiva in 34 nazioni tra Africa, Medio-Oriente, Asia, Sudamerica ed Europa dell’Est e impiega oltre 1800 persone che portano avanti piani di protezione dell’infanzia e di salute materna e infantile. Quarant’anni, nata e cresciuta a Cagliari, studi universitari nella facoltà di Scienze Politiche, Erasmus alla Complutense di Madrid e master in Development Studies alla School of Oriental and African Studies (SOAS) all’University of London, Angelita è a Nairobi dal 2011. Professionalmente parlando si è fatta le ossa in altri luoghi difficili: Afghanistan, Siria, Palestina, Giordania e Darfur. Posti nei quali la vita quotidiana è strappata con le unghie e con i denti ad avversità di ogni tipo.

Dal suo ufficio coordina tutti i progetti messi in piedi dall’organizzazione: «Terre des hommes è intervenuta in Kenya a seguito della carestia del 2011- e poi ha deciso di rimanervi almeno nel medio termine per fronteggiare le enormi diseguaglianze. Supervisiono le operazioni e la coordinazione strategica. In realtà, chiunque abbia confidenza con le ONG sa bene che un capo missione, avendo la responsabilità finale per tutto ciò che accade nel paese di riferimento, finisce per occuparsi un po’ di tutto: dalla parte operativa all’amministrazione, passando per l’aspetto finanziario e le risorse umane. Io sto soprattutto a Nairobi, divisa tra il mio ufficio e le riunioni di coordinamento con le autorità locali, le altre ONG e le varie agenzie dell’ONU interessate».

Tradotto: giornate pienissime d’incontri e di verifiche. Del resto il lavoro non manca. «In Kenya la protezione dell’infanzia si concentra a Dadaab, il campo profughi più grande al mondo, che ospita oltre 340 mila rifugiati, quasi tutti provenienti dalla Somalia. Qui assistiamo i bambini che hanno perso i genitori o che sono stati abbandonati – a volte per il loro stesso bene – considerato che la vita nel campo è comunque migliore di quella in Somalia dove gli adulti tornano per cercare di mantenere le poche proprietà. Nel settore salute siamo presenti soprattutto nelle zone aride dell’Est, dove i cronici livelli di malnutrizione sono aggravati dalle carestie sempre più frequenti».

Tuttavia accanto a una moltitudine d’invisibili- senza diritti e speranze – attecchisce sempre più una classe media intraprendente. «Negli ultimi decenni sono state investite ingenti risorse nell’istruzione della popolazione, con ottimi risultati dal punto di vista dello sviluppo. Il Kenya si sta ritagliando un ruolo importante nella tecnologia, soprattutto nell’internet trading e nella creazione di moltissime app. Pure la società civile è molto vitale, ci sono tantissimi attivisti di rilievo internazionale, nonostante le politiche repressive del governo».

Proprio la mala politica è la madre di tutti i guai del Kenya: «La lista dei problemi è lunga anche perché la società è assai complessa. Ci sono 9 gruppi etnici, 42 tribù diverse, ognuna con la sua cultura e i suoi sub-gruppi che parlano 69 lingue e dialetti. Questo pot-pourri ha creato e crea, tuttora, delle difficoltà e ha portato allo scoppio di gravi episodi di violenza; il più recente si è verificato nel corso delle elezioni del 2007, quando 1300 persone sono morte in decine di scontri e circa 600 mila sono state costrette ad abbandonare le loro case. Detto questo, a mio parere la corruzione e l’imperante impunità sono le emergenze del momento, con rilevanti ricadute sulla sicurezza». I progressi anche in politica ci sono, pur esasperatamente lenti se raffrontati alle emergenze galoppanti. Il capo missione di “Terre des hommes” cita la nuova Costituzione, approvata nel 2010 ed entrata  in vigore nel 2013: «C’è stato il riconoscimento degli insediamenti urbani informali, le baraccopoli. Secondo alcuni dati, Kibera, il più grande slum di Nairobi e forse di tutta l’Africa, ha una popolazione di 2.5 milioni di persone, ma la cifra è probabilmente gonfiata per questioni politiche. Comunque fino allo scorso anno queste città nelle città sono state ignorate dai piani di sviluppo. Adesso finalmente i diritti di chi le abita sono riconosciuti, anche se ci vorranno decenni per un reale impatto sulle loro vite».

Il Paese, al pari del Continente, è molto vario. L’errore più grande è pretendere di descriverlo in maniera esaustiva con gli eccessi e gli isterismi soliti. «L’Africa in sé non è povera e violenta o buona e bella; ci sono luoghi magnifici e orribili, persone corrotte e violente ma anche individui fonte d’ispirazione per tutto il mondo. Proprio come l’Europa o l’America. Il Kenya sinora mi ha dato tanto sul piano professionale, ma ancora di più sul piano umano. Ho avuto la fortuna di trovare un gruppo di amici che sono diventati un’estensione della mia famiglia e di poter fare ciò che, nonostante frustrazioni e dolori, rimane per me il mestiere più bello del mondo».

Giovanni Runchina

 

 

 

 

 

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