Georgina Lalli, architetto a New York: “Qui si va a mille all’ora, Italia paese museo che non ama le novità”

Suo padre, pilota d’aereo, è planato nell’isola nel 1991; quella scelta le ha fatto mettere radici profonde e forti «sono rimasta in Sardegna da quando avevo nove anni sino alla fine delle superiori» ma non soffocanti; così, quando ha sentito l’esigenza di esplorare il mondo, ha preso a sua volta il volo. Georgina Lalli ha sempre avuto confidenza con le novità, un po’ per carattere e un po’ per storia familiare. Trentadue anni, nata a Buenos Aires, infanzia e adolescenza a Olbia, laurea in Architettura a Firenze, vive a New York. In mezzo a queste tappe ha collezionato alcune esperienze di rilievo, sempre all’estero: quarta liceo in North Carolina, ospite di una famiglia americana col programma Intercultura, quarto anno d’università a Valencia con l’Erasmus; dopo il titolo accademico, un anno a Barcellona nello studio Miralles-Tagliabue e tre mesi in Giappone da Kengo Kuma.

Nel 2010 altro biglietto, stavolta direzione New York, per un master in Architettura Avanzata alla Columbia University: «Sono andata via dall’Italia perché cercavo un mercato del lavoro più dinamico e perché intendevo capire quale fosse il futuro dell’architettura a livello globale». Attirata dal mito dell’America spietata ma meritocratica, Georgina è tra i collaboratori dello studio Laguarda-Low Architets, settanta professionisti in tutto, con due sedi di design negli Stati Uniti – a Dallas e New York – e due di logistica/marketing rispettivamente a Beijing in Cina e a Tokio, in Giappone: «Lavoriamo molto su progetti urbani – spiega – e progettiamo interi pezzi di città soprattutto in Brasile, Colombia, Cina e Giappone, dove c’è ancora opportunità di creare spazi. In futuro però vorrei avere uno studio tutto mio».

Della Grande Mela dice: «È una città che si genera e si rigenera continuamente e che assorbe molto bene le novità di qualunque tipo​:​ tecnologiche, architettoniche, demografiche. Questo dinamismo, unito al pragmatismo e alla competitività tipici dell’America, tiene insieme i migliori talenti in vari campi, attraverso una selezione naturale che quasi spaventa ma – allo stesso tempo – stimola a essere più creativi, a primeggiare nella professione e a cercare il meglio per se stessi e per la propria famiglia. Dal punto di vista strettamente architettonico, la situazione è più complessa: il mercato è molto maturo, focalizzato sul denaro per via degli alti costi dei terreni e di costruzione e per tali ragioni si opera in parametri molto limitanti con scarsa libertà di manovra dal punto di vista del design. Io, tuttavia, mi occupo di progetti al di fuori degli Stati Uniti e cerco di applicare altrove gli spunti che ricevo qui, in questo luogo così creativo e sorprendente».

La sua esperienza incarna alla perfezione il prototipo di self-made-woman, di donna che con fatica, determinazione e applicazione è riuscita a ritagliarsi spazi importanti in un luogo dove si corre a mille all’ora e nel quale, al netto dei tanti limiti, il talento è spesso riconosciuto e premiato al di là dell’età e del luogo di provenienza. «Ho preso parte a vari progetti molto stimolanti – racconta – ma sinora quello più esaltante è stato il doppio Master Plan in una città della Cina, 350 mila metri quadri di ampliamento nella zona nord del progetto, e altri 300 mila nella zona sud con varie torri residenziali, uffici e un podio commerciale».

Incarico che un giovane professionista otterrebbe difficilmente in Italia, a causa di un sistema gerontocratico e pachidermico; eppure le potenzialità non ci mancano: «L’Italia è una meta appetibile, con grandi capacità inespresse ma che fatica terribilmente ad assorbire le novità di qualunque tipo e a rigenerarsi. Però bisogna essere consapevoli del fatto che il cambiamento è inevitabile ed è meglio governarlo, preservando la propria fondamentale identità, che subirlo. Diversamente si rischiano l’isolamento e la povertà. A queste tendenze conservatrici dobbiamo aggiungere altri due fattori negativi, la scarsa conoscenza dell’inglese e il diffuso sottoutilizzo delle tecnologie».

L’architettura è lo specchio della realtà: «Quella contemporanea è pressoché inesistente e ciò è dovuto a mio avviso alle leggi e al numero esorbitante di professionisti. Elementi che sono causa e conseguenza della disneyficazione del Paese. Preservare i centri storici senza un minimo accenno all’attualità ha fatto passare un’idea museale della città, facilitando l’espulsione dal centro delle funzioni produttive e culturali. L’altro aspetto è il numero di architetti, uno ogni 414 abitanti, mentre negli Stati Uniti il rapporto è di uno ogni 1429 cittadini e in Cina uno ogni 40 mila. Tuttavia è interessante osservare come il combinato tra sovra offerta di professionalità e mancanza di opportunità abbia generato grandi risultati nel product e interior design in cui gli italiani sono leader indiscussi».

Il futuro, a livello globale, è molto incerto, servirà cambiare pelle e combinare più capacità e sensibilità: «La nostra è una professione che non ha un domani roseo, dal mio punto di vista. Rispetto al passato ci sono molti meno progetti pubblici e la maggior parte delle decisioni è in mano ai costruttori che sviluppano programmi prestabiliti con cubature dettagliate, in modo da massimizzare il profitto. Ci sarà sempre necessità di progettare spazi, ma ritengo che saranno sempre meno quelli vivibili analogicamente. La novità è l’architettura esperienziale digitale. Ai giovani che vogliono cercare spazi in questo settore consiglio di specializzarsi quanto prima per lavorare da subito nel loro ramo con grande impegno».

Giovanni Runchina

 

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