Da Oristano fino in Antartide: Giorgio Deidda è il re della cucina tra i ghiacci

Mustaccioli, filu ferru e malloreddus a meno 80 gradi. Benvenuti in Antartide nella cucina ai confini del mondo tenuta da Giorgio Deidda, classe 1978, chef gourmet oristanese della base scientifica italo-francese “Concordia”, dove l’Ente spaziale europeo sperimenta le condizioni atmosferiche per un futuro viaggio su Marte. Ci vuole indubbiamente spirito d’avventura, curiosità del mondo e tantissima passione per fare un lavoro del genere, per Giorgio è però soprattutto la concretizzazione di un sogno di una vita. Anzi, oggi è un vero e proprio “veterano dei ghiacci”, visto che è una presenza praticamente fissa nel continente, dal 2007 sino ad ora, e ha partecipato anche a due Winterover nel 2008 e 2010. Il Winterover è il lungo inverno artico, un periodo di circa nove mesi in completo isolamento dove si toccano i meno 87,4 gradi. Temperature estreme, dove anche cucinare un semplice piatto di pasta significa dover obbedire a precise leggi fisico chimiche dettate dall’ambiente naturale.

SardiniaPost lo ha sentito via Skype, mentre si trova momentaneamente a Varsavia, dove sta lavorando in attesa di ritornare nel continente dei ghiacci eterni a novembre: “Farò il periodo che qui da noi, nell’emisfero Nord corrisponde all’inverno, – spiega – ma al Polo Sud è l’esatto contrario perché sarà estate”. La prima volta è stato quasi per caso, ci racconta, il suo profilo professionale corrispondeva, infatti, alla figura di responsabile che il Programma nazionale di ricerche in Antartide stava cercando: “Mi contattarono perché serviva uno chef di cucina con esperienza internazionale che parlasse fluentemente sia inglese che francese. Accettai di fare le selezioni e mi presero”. Giorgio Deidda ha girato il mondo sin da subito, puntando proprio sul voler spendere il proprio lavoro fuori dai confini italiani frequentando la CAP cuisine Hôtelier «Le saleve» Annemasse dell’Académie de Grenoble in Francia, per poi farsi le ossa in Gran Bretagna, dove ha partecipato a corsi di perfezionamento. Questo gli ha permesso di adattarsi alle situazioni più diverse, un bagaglio prezioso di conoscenze che poi gli è servito nella base “Concordia”.

Far arrivare i rifornimenti sin lì è piuttosto complicato. Durante l’inverno si è praticamente isolati e al buio. Quindi deve fare una programmazione delle merci molto dettagliata immagino…

“Sì, la base è situata in uno dei punti più remoti del pianeta, all’interno del continente antartico a circa 1200 chilometri dalla costa e ad una quota di circa 3200 chilometri d’altezza che però a causa della curvatura terrestre equivalgono a 4 mila metri. Ci sono tre mesi di buio totale, due circa di crepuscolo e i restanti solo di luce. Le condizioni di vita sono più difficili e ci si trova con meno ossigeno e condizioni di pressione atmosferica molto diverse dall’Italia. L’acqua bolle a 87 gradi ad esempio. Quindi potete immaginare quante cose cambiano in cucina. Dalla bollitura della pasta alla disidratazione di farine e alimenti perché l’Antartide è anche uno dei luoghi più secchi del pianeta. Per non parlare di come la pressione atmosferica non consenta determinate cotture, come la pasta a Bignè, per citarne una. Le temperature durante il periodo invernale raggiungono anche i – 80 sotto zero. Quindi per nove mesi la base resta isolata dal resto del mondo. I viveri arrivano tutti nel periodo estivo (Novembre, Dicembre e Gennaio) e vanno pianificati molti mesi primi con molta precisione. Alcuni cibi arrivano dall’Italia altri dalla Francia e altri da Australia e Nuova Zelanda. Quindi non c’è possibilità di errore, altrimenti c’è il pericolo di rimanere senza determinati prodotti”.

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E ovviamente tutto va conservato in maniera particolare…

Certo, ci sono diversi magazzini che sfruttano il freddo esterno alla base. Con dei sistemi di ventilazione collegati a dei bocchettoni muniti di termostato, immettono aria dall’esterno per portare una prima cella a -20 gradi dove stoccare parte dei cibi congelati. Tramite un’alta ventola si porta un altro magazzino adiacente a +4 gradi dove stocchiamo i viveri freschi e un altro magazzino ancora con 14 gradi, dove si mantengono i cibi secchi. All’interno della base la temperatura è piacevole. Per uscire ovviamente occorrono delle divise a strati appositamente studiate per l’ambiente del Polo Sud. Per tornare alla domanda, i cibi freschi che arrivano nella base vanno lavorati per far si che durino per tutto l’anno. Le melanzane, le zucchine, i peperoni, l’aglio i pomodori, le zucche e tutti gli altri alimenti freschi permetteranno di avere un alimentazione equilibrata per tutto il periodo di isolamento. E posso assicurare che si può avere una cucina anche molto piacevole e variata.

Ha mai fatto qualcosa di tipicamente sardo? Lo hanno apprezzato?

Anche perché essendoci non solo italiani ma anche altri che arrivano dai paesi più disparati ha a che fare con diversi tipi di cucina e gusti personali.
Ho fatto tantissime ricette sarde e ho anche portato personalmente con i miei bagagli moltissime specialità che mi hanno consentito anche di realizzare diverse ricette tipiche: pecorino sardo, casizolu, miele di corbezzolo e asfodelo, bottarga di muggine, pane carasau, vernaccia di Barattili, filu ferru, mandorle; persino il budellino sotto sale per la salsiccia artigianale. Quindi ho potuto realizzare dai malloreddus alla Campidanese, ai mostaccioli di Oristano, sino alla seadas con miele di altissima qualità del centro Sardegna. Ma anche orata alla Vernaccia o l’agliata di polpo, giusto per citarne alcuni. Oltre a tantissime ricette di altri dolci sardi. Non posso elencare tutto perché ci vorrebbero pagine e pagine. Ma posso dire che la cucina sarda è sempre stata molto apprezzata non solo dai colleghi italiani ma anche di altre nazionalità.

È l’unico cuoco della base o c’è anche qualcun altro?
Da qualche anno ho smesso di fare le missioni di un anno intero. Adesso faccio solo il periodo estivo, come dicevo prima da novembre a fine gennaio circa. Ci sono tantissime persone che aiutano in cucina, di solito tutti quelli che anno un po’ di tempo libero. E durante la missione devo anche formare i cuochi che passeranno il periodo invernale. Quindi ci si ritrova in tre, due cuochi, un aiutante molto valido, più tutti i volontari, più o meno esperti che nei momenti liberi vengono a dare una mano.

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Per volontari intendi le persone che partecipano alla missione scientifica? Che differenza c’è nel lavorare nel periodo estivo e quello invernale?

Sì, i volontari sono spesso scienziati, ricercatori, medici e anche logistici. Nel periodo estivo si arriva ad essere anche oltre 80 persone al giorno, il che significa fornire 240 pasti circa tra colazione pranzo e cena. Questo crea una grossa mole di lavoro se si considera anche che facciamo tutto, compreso pane e pasticceria. Il periodo invernale invece, quello con i mesi di buio, ci si ritrova con circa 13 persone, c’è meno lavoro ma è più difficile dal punto di vista psicologico dovuto all’isolamento. Finora tra tutti i partecipanti sono l’unico ad aver partecipato a quattro inverni.

Come c’è riuscito? E soprattutto cosa significa da un punto di vista umano e psicologico vivere in una situazione così particolare e, sicuramente, estrema?

Ci sono riuscito grazie ad una sconfinata motivazione, e a tanti progetti. Inoltre la cucina dà tanta soddisfazione e in un contesto del genere, in qui non ci sono stimoli esterni, il cibo diventa ancora più importante. Ogni missione mi ha reso più forte, è un po’ come avere l’opportunità di uscire dal mondo come lo conosciamo e vedere il tutto da una prospettiva diversa. I rapporti umani diventano fondamentali in un ambiente così isolato. Nascono delle amicizie molto importanti e si impara a convivere anche con persone di nazionalità e culture diverse. È un esperienza fantastica. L’Antartide è un luogo che dal primo momento in cui ci si mette piedi regala delle emozioni bellissime, perché è l’ultimo continente al mondo incontaminato e dedicato solo alla scienza.

Come ci si arriva?

Aerei su aerei. La prima tappa è arrivare in Nuova Zelanda, poi con un aereo militare australiano si attraversa l’Oceano Antartico e, infine, si fa l’ultimo tratta che porta sino alla base con un bimotore da sei posti. Il primo anno però, nel 2007, sono passato dalla Tasmania e ho attraversato il mare su una nave oceanografica. Sei giorni tra balene, albatros e iceberg. Era come vivere nei libri di Melville e Conrad che praticamente conosco a memoria. Sin da bambino desideravo viaggiare, ecco perché ho scelto di andare all’estero e imparare le lingue. Ma non ero mai pienamente soddisfatto; almeno sino a quando non ho attraversato l’Oceano Antartico. Solo in quel preciso momento mi sono reso veramente conto che stavo realizzando i miei sogni più belli.

Francesco Bellu

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