Antonio Piras, ricercatore sassarese a Stoccolma: «Il mio sogno? Trovare la cura contro l’Alzheimer»

Antonio Piras ha uno sguardo pulito, profondo e attento. Occhi che analizzano quotidianamente al microscopio ogni singola traccia del ricercato numero uno: l’Alzheimer. Ladro subdolo, abilissimo e ancora inafferrabile che – giorno dopo giorno – porta via gli arredi della tua casa interiore: dalle parole alla memoria di sé e degli affetti, condannandoti a un limbo sempre più angusto e silenzioso, a un tutto indistinto che ti separa dagli altri anche stando in mezzo a loro.

Per scovarlo occorrono investigatori pazienti e instancabili, capaci di lavorare per ore su tracce infinitesimali ma pure di deviare dalla strada tracciata seguendo un’intuizione. Antonio è tra questi. Trentatré anni ancora da compiere, studi universitari a Sassari – laurea triennale in scienze biologiche – e a Torino dove si è specializzato in neurobiologia, il ricercatore sassarese fa la spola tra la Svezia e la Svizzera, dove si trova in questo periodo e resterà sino a marzo. «Sono di base al Karolinska Institutet di Stoccolma (tra le eccellenze mondiali nella ricerca scientifica) nell’ambito di un progetto di due anni sponsorizzato dalla Roche (colosso della farmaceutica con oltre 85 mila dipendenti – ndr) che fornisce i soldi per il mio salario e la mia ricerca».

La miniera cui attinge è la Brain Bank, la banca dei cervelli, dell’istituto: «Qui si trovano gli encefali umani post-mortem di pazienti affetti da diverse patologie neurodegenerative e che decidono di donare il proprio organo alla ricerca. Mi occupo dei meccanismi biologici alla base di particolari forme neurodegenerative, chiamate tauopatie. L’obiettivo è capire se l’autofagia, un processo fisiologico che permette alle cellule di “ripulirsi”, è alterato o compromesso nel tessuto neuronale dei pazienti».

Attività complessa che, semplificata al massimo, si divide in tre fasi: sperimentazione, analisi di quanto ottenuto, aggiornamento e comparazione dei propri risultati con quelli presenti in letteratura già noti e pubblicati: «Settimanalmente – spiega – confronto i miei dati con i miei supervisori e programmiamo i nuovi esperimenti da svolgere seguendo le linee tracciate in base alle novità. Trascorro inoltre molto tempo pure nel mio studio a scrivere progetti scientifici, pubblicazioni e richieste di nuovi fondi».

Dalla Sardegna ha avuto un duplice stimolo: negli studi e nei primi passi da ricercatore con un dottorato di quattro anni dal 2009 al 2013 in medicina molecolare, indirizzo biotecnologico, e svolto a Torino grazie a una borsa del progetto Master and Back della Regione. «Mi sono concentrato sui meccanismi molecolari legati all’insorgenza di diverse patologie neurodegenerative su modelli animali: sclerosi laterale amiotrofica (Sla), atrofia muscolare spinale (SMA) e Alzheimer. Ho potuto soddisfare pure un’altra grande passione: l’insegnamento di anatomia umana e neuroanatomia agli studenti universitari di scienze infermieristiche, scienze motorie, farmacia e biotecnologie. Nel corso di questo quadriennio ho trascorso pure un breve periodo all’Harvard University in Massachussetts, uno tra gli atenei più prestigiosi in assoluto; qui mi sono confrontato con ricercatori di altissimo livello. Una parentesi che mi ha arricchito sotto tutti gli aspetti».
E che ha aiutato a costruire un profilo scientifico di prim’ordine, adatto a una battaglia enorme che si combatte su numeri impressionanti. Al mondo ci sono circa 44 milioni di persone affette da demenza, nel 2030 – stando alle stime più recenti – saranno 76 milioni; l’Alzheimer è la forma più diffusa. La vittoria è ancora lontana: «I farmaci in uso permettono di rallentare i sintomi delle demenze mentre non hanno alcun effetto sull’altra metà dei casi. Ve ne sono alcuni in fase sperimentale che permettono di ridurre due proteine, Abeta e Tau, che tendono ad accumularsi in condizioni patologiche nell’encefalo e nel liquido cefalorachidiano».

Anche il campo dove Antonio è impegnato quotidianamente è altrettanto distante dall’Italia: «Il mio sogno è proseguire in questi studi e guidare e gestire un mio gruppo di ricerca indipendente. Se l’Italia potesse fornirmi gli strumenti adeguati, sarebbe il posto perfetto». Per ora lo è solo a metà: formiamo eccellenze ma non sappiamo trattenerle e, forse, non ci interessa perché non ne abbiamo colto l’importanza. Siamo portatori sani di dissipazione di talento. Un po’ come un prodigo folle e nient’affatto gioioso facciamo scuola ma non sappiamo tenerla entro i nostri confini: «Vivendo all’estero ho conosciuto tantissimi ricercatori italiani e sardi. La nostra università fornisce una buona preparazione ma non assegna un inserimento appropriato nel mondo del lavoro. Trovare una posizione come la mia in Italia è veramente difficile e per questo motivo, molti sono costretti a emigrare». Complice, conclude Antonio, pure un malinteso senso del tempo: «Stando in Svezia ne ho colto il grande valore. Ogni cosa ha il suo ciclo e non bisogna forzare, i risultati arrivano pian piano. In Italia, al contrario, si attende tutto con impazienza e questo atteggiamento è in antitesi con la ricerca che ha bisogno dei suoi tempi. Bisogna investire oggi per raccogliere domani».

Giovanni Runchina

 

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