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Usala e Lampedusa. Due storie, una sola vergogna

Salvatore Usala, il malato di Sla che da anni combatte per il riconoscimento del diritto alla salute – il suo personale diritto e il diritto degli altri malati – ha deciso di gettare ancora una volta la propria vita sul tavolo della trattativa col governo. Il 20 ottobre andrà a Roma e, accompagnato dai suoi assistenti, e si piazzerà davanti alla sede del ministero dell’Economia. Se non avrà impegni precisi da quello che definisce “governo di ipocriti” si lascerà morire. Aveva compiuto un gesto identico un anno fa, era stato ricevuto e gli impegni precisi erano arrivati.

Allora la richiesta era il ripristino del fondo per le disabilità gravi, in un primo tempo dimezzato dal governo Monti, ora è la richiesta di estendere a tutt’Italia il modello d’intervento terapeutico adottato da anni in Sardegna. Che consiste semplicemente nel finanziare in modo diretto le famiglie, in modo che i malati possano restare nelle loro case, tra i loro affetti. Usala, la cui mente è lucidissima nel corpo paralizzato, ha elaborato una proposta molto precisa e dettagliata. Sostiene in modo documentato che l’adozione di questo metodo non solo gioverebbe ai malati, ma determinerebbe un considerevole risparmio economico e la creazione di nuovi posti di lavoro.

Le ragioni della protesta sono esposte in un documento nel quale a un certo punto Usala cita la tragedia di Lampedusa. Anche lo scorso anno aveva messo sullo sfondo della sua battaglia vicende sociali drammatiche quali la lotta dei cassintegrati e dei precari. E’ stato un dirigente sindacale e gli viene naturale inserire le proprie ragioni e quelle degli altri malati in un contesto più ampio.

Ma la citazione dell’ultima strage nel Mediterraneo evoca una questione ulteriore, che ha molto a che fare con le sue battaglie e soprattutto con le modalità che ha scelto per le sue proteste. Modalità estreme, drammatiche. Tutte le volte Usala mette in gioco la propria vita e lo fa sul serio. Perché il solo fatto di non caricare le batterie del respiratore espone il suo corpo martoriato a un rischio enorme.

Viviamo in un sistema della politica e dell’informazione – delle loro relazioni spesso equivoche – nel quale la gerarchia dei problemi quasi coincide con quella della notiziabilità. La Bossi-Fini esiste dal 2002, ma ci sono voluti più di trecento morti e i riflettori del mondo puntati sull’Itala perché finalmente fosse avviata una seria iniziativa politica per la sua cancellazione. Quell’iniziativa che da anni era inutilmente invocata da minoranze di persone competenti nei partiti come nelle redazioni dei giornali e dei telegiornali.

Una politica priva di orizzonti vive di sondaggi e di facile consenso. Quanto ha detto Beppe Grillo a proposito della inopportunità della richiesta dell’abrogazione del reato di clandestinità, perché è una richiesta impopolare, che può far perdere consensi, non è altro che l’esplicitazione spudorata e anche un po’ ingenua di un metodo accettato e condiviso. Il leader autentico è quello capace di sostenere una posizione impopolare che ritiene giusta. Per sostenere le battaglie quando già sono popolari non c’è bisogno di un leader, bastano uno speaker e un buon istituto di sondaggi.

Usala l’ha capito benissimo. Offre alla stampa e alla politica la notizia. Fa incombere sul palazzo la tragedia della propria morte in diretta. Garbatamente dice che se quella tragedia dovesse verificarsi il Palazzo sarebbe coperto di vergogna. E’ un uomo gentile: tace  sul fatto che la vergogna è già pienamente in atto. E il suo dover rischiare la vita per farsi sentire ne è una delle prove più scandalose.

G.M.B.

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