Un candidato unitario per non lasciare la Sardegna a Cappellacci

La Sardegna attraversa una delicata fase di transizione: il vecchio stenta a morire e il nuovo trova difficoltà ad affermarsi. Una classe politica che ha segnato gli ultimi vent’anni della vita politica, culturale ed economica della nostra isola, cerca di rimanere aggrappata ai privilegi, alle rendite di posizione, al coacervo di interessi che gli ha assicurato la sopravvivenza.

Due sono le strade che storicamente una classe politica delegittimata e impaurita decide di percorrere. La prima è quella del ricorso a dei meri artifizi legislativi. La legge elettorale di recente approvata dal Consiglio regionale, grazie alle “larghe intese” tra Pdl e Pd, non è soltanto un gesto di arroganza degno del peggior “porcellum”, ma è soprattutto una manifestazione di paura, di debolezza, di smarrimento.

Si sono ritagliati addosso una legge a loro uso e consumo che presenta evidenti profili di incostituzionalità. Di fronte al “nuovo”  hanno pensato di erigere un muro: un muro contro le nuove aggregazioni (lo sbarramento del 10%), un muro contro i movimenti ( il 5%), un muro contro le donne. Eppure dovrebbero saperlo: è velleitario pensare di contrastare i processi politici e culturali che si agitano all’interno di una società attraverso delle norme.

La società sarda esprime dei forti bisogni di autogoverno e di autodeterminazione che possono essere soddisfatti perseguendo delle soluzioni istituzionali nuove ed inedite: sovranità, indipendenza. I muri, specie se camuffati da artifizi legislativi, possono solo ritardare i processi, ma non arrestarli.

La seconda strada è più subdola e pericolosa e consiste nel mettere in atto delle manovre “gattopardesche”. Il miglior modo per annacquare e depotenziare un’idea forte è appropriarsene. Oggi tutti si dichiarano sovranisti se non indipendentisti. Cappellacci e Pili cavalcano con spregiudicatezza e strumentalità la “zona franca” integrale: un’idea semplicemente irrealizzabile se non a scapito dei sardi. Lo stesso Pd si dichiara aperto al confronto, dimenticando che la sua elaborazione in materia di rapporti tra la Sardegna e lo Stato italiano risale alla seconda metà del secolo scorso: la stanca riproposizione dell’Autonomia Speciale, che nel frattempo è morta e sepolta.

Che dire poi del tentativo di costruire il “ Partito dei Sardi” che punterebbe alla sovranità della Sardegna? Un tentativo che, al di là delle buone intenzioni di alcuni dei promotori, è inficiato in radice dalla scarsa credibilità di chi in tutti questi anni ha collaborato fattivamente con la giunta Cappellacci, approvandone tutte le scelte più disastrose per la Sardegna.

E allora, che fare? Il pericolo è che le divisioni nello schieramento progressista, sovranista e indipendentista finiranno per favorire la vittoria di Cappellacci e della destra alle prossime elezioni regionali. Sarebbe troppo chiedere a tutta la galassia dei movimenti e dei comitati spontanei che si rifanno a un’idea precisa di sovranità e di indipendenza di sedersi intorno a un tavolo insieme a quella parte dello schieramento progressista che ha dimostrato almeno attenzione a queste tematiche, per costruire un Progetto di profondo rinnovamento della realtà politica, economica, culturale e istituzionale della nostra isola. E su quel Progetto individuare, attraverso gli strumenti che si riterranno più opportuni, un candidato unitario alla Presidenza della Regione.

Un tentativo, forse velleitario, che servirebbe anche a spuntare l’arma del ricatto sul “voto utile”. Un tentativo di assicurare un’alternativa credibile a tutti quei cittadini che, scontenti del Pd e di Sel, sarebbero costretti a rifugiarsi nell’astensionismo. Ogni altra scelta al di fuori di questo obiettivo si ridurrebbe a una pur legittima testimonianza.

Massimo Dadea

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