Tutte le anomalie della Fondazione. E il suo strano “giardinetto” di titoli

Sulla Fondazione del Banco di Sardegna l’intero mondo politico continua a tacere. Così come tacciono gli stessi vertici della Fondazione, benché chiamati in causa da questa testata con domande rispettose ma precise. Eppure si tratta di uno dei principali strumenti a disposizione del popolo sardo per intervenire sulle leve economiche. Ma niente. Silenzio assoluto. Abbiamo perciò pensato di creare un contenitore informativo sulla Fondazione e di chiamarlo Amsicora, come il celebre eroe isolano.

Amsicora non è lo pseudonimo di un solo autore, ma il ‘nome collettivo’ con cui firmeremo analisi (oggi pubblichiamo la prima) che sono il frutto di informazioni acquisite da fonti economiche che, per una serie di ragioni, vogliono evitare di esporsi pubblicamente e di sostituirsi in questo modo al silenzio della politica. La direzione di questa testata è ovviamente a conoscenza della loro identità e ne garantisce la competenza.

Da qualche tempo a questa parte, da Siena ad Ancona e a Genova, è entrato in ebollizione – o in crisi – il mondo delle Fondazioni bancarie. Volute negli anni ’90 con la legge Amato-Carli, e via via trasformate da un susseguirsi di chiarimenti e sentenze, sono state il veicolo, non sempre ottimale, per privatizzare le banche pubbliche. Va da aggiungere che anche la Sardegna non sarebbe rimasta estranea a questo ribollire di critiche e di riserve che hanno investito soprattutto la “politica” (cioè l’invadenza dei politici) che cacciata dalla porta a seguito della privatizzazione è poi rientrata dalla finestra, tanto più comoda, tanto da divenire il varco per impadronirsi delle 90 Fondazioni. Che non sarebbe stata poi una retrocessione, dato che quei politici si sono trovati possessori (?) di un tesoro che non era poi tanto male: poco meno di una cinquantina di miliardi di euro!

Un tesoro da dover però gestire, secondo il legislatore, con l’osservanza di criteri prudenziali di rischio, e soprattutto attraverso la diversificazione degli investimenti e l’attenta valutazione di un facile smobilizzo. Questo per avere modo di salvaguardare al meglio, nel medio/lungo periodo, il suo valore e la sua capacità di produrre adeguato reddito. Proprio per via della natura “non privata” di quel patrimonio.

In più, s’imponeva di dover osservare il fermo il rispetto del criterio dell’adeguata redditività, con l’obbligo di dover investire una quota del patrimonio in impieghi relativi o collegati ad attività destinate al perseguimento delle finalità istituzionali e in particolare allo sviluppo del proprio territorio. Sempre il legislatore ha voluto indicare i settori entro cui indirizzare esclusivamente le proprie finalità, indicandoli in “ammessi”, mentre ogni fondazione potrà indicare, autonomamente, quelli – definiti “rilevanti” – su cui indirizzare prevalentemente la propria attività. Vincoli, anche questi, che mal si concilierebbero con una voluta natura “privata” di queste istituzioni.

Il decreto, nel testo vigente, ha anche individuato i settori da ammettere (famiglia e valori connessi; crescita e formazione giovanile; educazione, istruzione e formazione, incluso l’acquisto di prodotti editoriali per la scuola; volontariato, filantropia e beneficenza; religione e sviluppo spirituale; opere pubbliche ed infrastrutture territoriali; assistenza agli anziani; diritti civili; prevenzione della criminalità e sicurezza pubblica; sicurezza alimentare e agricoltura di qualità; sviluppo locale ed edilizia popolare locale; protezione dei consumatori; protezione civile; salute pubblica, medicina preventiva e riabilitativa; attività sportiva; prevenzione e recupero delle tossicodipendenze; patologie e disturbi psichici e mentali; ricerca scientifica e tecnologica; protezione e qualità ambientale; arte, attività e beni culturali), nell’ambito dei quali le fondazioni scelgono, ogni tre anni, non più di cinque settori rilevanti. Va ancora aggiunto che, per merito (o demerito?) del ministro Tremonti le Fondazioni furono obbligate a sottoscrivere il 30 per cento del capitale (pari ad oltre un miliardo di euro) della Cassa Depositi e Prestiti CDP, appena trasformata in spa.

Ora, al di là di queste indicazioni, è evidente che quella mutazione nella natura delle Fondazioni: da soggetti di diritto pubblico a istituzioni di diritto privato – pur obbligate a perseguire obiettivi di pubblica utilità – ha creato un evidente busillis giuridico su cui più volte sarebbe dovuta intervenire la Corte costituzionale, non sempre con l’auspicata chiarezza. Ed a questo riguardo, tenuto presente la discutibile problematica relativa alla configurabilità di una terza categoria intermedia tra enti pubblici ed enti privati, questi enti privati non dovrebbero sfuggire (come sostiene una certa cultura giuridica) ad un attento e penetrante regime di vigilanza da parte dello Stato (o delle Regioni come rappresentanti a tutela delle comunità da cui provengono quei patrimoni). Per sottoporre a verifica se gli investimenti e le azioni messi in atto siano, o no, rispondenti a pubblica utilità dei territori interessati. Vi è infine una crescente richiesta perché si voglia intervenire in sede legislativa per correggere le evidenti e contraddittorie attività gestionali messe in atto dalle Fondazioni in questi 15 e passa anni di attività, essendo divenute strumenti di casi discutibili o addirittura illeciti, quasi sempre al servizio di una politica di fazione.

Se questo è, in rapida sintesi, il quadro normativo di riferimento generale, si è ritenuto di dover procedere con l’esame di quanto interessa maggiormente ai nostri lettori. Cioè lo stato di salute e di efficienza della Fondazione oggi guidata da un politico di lunga navigazione come l’ing. Antonello Cabras. Per primo, si è inteso conoscere su quali settori la Fondazione BdS abbia indirizzato il proprio interesse: sono stati indicati come settori “rilevanti”, quelli riguardanti i beni artistici e culturali, la ricerca scientifica e tecnologica e la salute pubblica, mentre ha “ammesso” altri due settori: quello relativo al volontariato, beneficenza e filantropia oltre a quello attinente lo sviluppo locale e l’edilizia popolare locale.

Occorre precisare che l’analisi è stata effettuata sulla base dei documenti ufficiali (ultimo bilancio della Fondazione BdS al 31.12.2013). Partendo innanzitutto dallo stato del rapporto “patrimonio/investimenti”. Se la prima voce è risultata essere di 886.472.786 euro, la seconda somma a 878.252.097 euro, pari al 99,1 per cento. Occorre ancora precisare che le partecipazioni azionarie ne interessano il 67 per cento (di cui tre quinti rappresentato dalle azioni dell’azienda bancaria conferitaria ed un quinto da quelle della CDP) mentre i titoli di debito (obbligazioni e warrant di varia natura) riguardano il restante 33.

Si tratta di una situazione che è piuttosto anomala rispetto al portafoglio medio finanziario delle fondazioni bancarie del Paese, così come rilevato da un recente studio. Infatti, le quote di capitale delle ex banche pubbliche sarebbero ora scese al 22,6 per cento (dal 42,4 del 2001), mentre il restante portafoglio finanziario risulterebbe formato dal 18,7 in titoli di debito, dal 22,6 nelle gestioni immobiliari ed il restante 36,1 per cento in titoli azionari (con la metà circa nella CDP).

Se dunque la Fondazione BdS detiene una delle quote più alte di capitale nell’azienda bancaria (il 49 per cento), risulta anche quella che ha maggiormente “sterilizzato” il suo ruolo di secondo azionista, avendo sottoscritto un patto di sindacato con il socio di maggioranza con cui si è di fatto preclusa ogni strategia finanziaria su quei 352,1 milioni di euro in azioni della spa bancaria: infatti si è obbligata a non scendere sotto il 20 per cento del capitale, a riconoscergli il diritto di prelazione sull’eventuale vendita del residuo 29 in suo possesso, e, non ultimo, di dover chiedere un placet preventivo nella nomina dei propri rappresentanti nel CdA e nel Collegio sindacale (un azionista appena “sveglio”, con quel 49 per cento del capitale in mano, avrebbe impedito senza difficoltà ogni mira predatoria della BPER).
Di fatto, come molti commentatori hanno giustamente rilevato, l’azionista bancario di maggioranza – nella fattispecie la Banca Popolare dell’Emilia Romagna BPER – si è recentemente comportata – e tuttora va comportandosi con la chiusura di filiali e l’asportazione di servizi – come padrone unico del Banco di Sardegna spa, evirandolo di ogni autonomia e spogliandolo dei più importanti beni patrimoniale (lucrandone anche le plusvalenze). Facendo così fare al CdA la figura già dei governi coloniali all’interno del Commonwealth del Regno Unito.

Se poi si analizza in dettaglio il portafoglio delle partecipazioni e delle obbligazioni in mano alla Fondazione, si ritrova sempre la Banca emiliana come destinataria favorita, in quanto detiene titoli di debito (obbligazioni BPER) per 92.342.445 euro oltre a 22.593.196,69 in azioni (in totale sono circa 115 milioni, ma cinque anni fa erano, in totale, quasi 300).

Può essere allora interessante verificare le destinazioni degli altri investimenti effettuati, ricercandone la congruità con quei principi di tutela da rischi e di concordanza con le finalità istituzionali prescelte e indirizzati al progresso dell’isola, come prescritti rigidamente dal legislatore. A parte i 30,7 milioni impegnati in titoli del Tesoro, che rispondono certamente ad un interesse pubblico generale, non si è trovato alcun investimento che avesse una seppur lontana affinità con l’isola. A parte i 55 milioni di euro di obbligazioni in quel chiacchierato “Fondo F2i” per la costruzione di parchi eolici, di reti metanifere e di partecipazioni negli aeroporti milanesi ed in società energetiche (ovunque ma non in Sardegna); dei 40,4 milioni affidati all’inglese Novus Capital (che parrebbe essere in liquidazione); dei 22.8 milioni alla ELM, di cui non viene fornita peraltro notizia alcuna, con in più una partecipazione azionaria di 5 milioni di euro (ma in borsa si sarebbero ridotti a 3,6) con una minuscola IVS (International Vending Services, società di diritto lussemburghese), che gestirebbe (sic!) dei distributori automatici di bevande e snack in uffici e locali pubblici (anch’essa peraltro dai trascorsi poco chiari e non esente da chiacchiere).

Non è facile capire, quindi, come quel “giardinetto” di titoli di varia natura (del valore di oltre 300 milioni di euro) in mano alla Fondazione BdS sia stato acquisito rispettando quei rigidi requisiti imposti dal legislatore (e, non secondariamente, da una opportuna accortezza).
Seppure non vi sia dubbio alcuno come la gestione finanziaria abbia assunto nel tempo un ruolo sempre più importante e difficile, soprattutto in relazione al progressivo accesso al mercato e alla maggiore complessità dei mercati finanziari così come si è registrata in quest’ultimo tempo, è indubbio che alcuni aspetti di come sia stato formato il portafoglio della Fondazione BdS possono far sorgere dei legittimi dubbi. Sembrerebbe che anche nel caso sardo si sia verificata quella che gli autorevoli economisti de “lavoce.com” hanno denunziato come carenza (od assenza) di un’adeguata cultura finanziaria indispensabile in organismi chiamati ad investire quasi 50 miliardi di euro.

Tra l’altro, aver mantenuto il possesso del 49 per cento del capitale dell’azienda bancaria senza farlo valere di fronte alla continua sottrazione di poste attive del suo patrimonio, parrebbe un peccato d’ingenuità finanziaria o di servilismo verso la BPER.

C’è qualcosa da aggiungere? Diviene difficile giungere ad una conclusione o ad un giudizio. Perché le perplessità sono tante, ed i dubbi altrettanti. Quindi quel che pare giusto chiedere è che gli amministratori della Fondazione debbano essere chiamati a render conto del loro operato alla comunità di riferimento e, per essa, al Presidente della Regione Sardegna che la rappresenta istituzionalmente.

Amsicora

 

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