Trivelle, quella strana alleanza tra “buon senso” e “non senso”

Il presidente Francesco Pigliaru ha scritto sulla sua pagina Facebook che il risultato del referendum “dimostra che per la maggioranza degli elettori questo è il momento del buon senso, del dare risposte ragionevoli a domande semplici, del tenersi lontano da ideologismi astratti”. Il significato dell’affermazione, il governatore lo chiarisce in un’altra parte del post: “In questo referendum (in ciò che è rimasto del ben più importante referendum iniziale) si trattava di scegliere se tenere aperti i pochi impianti in funzione fino all’esaurimento dei giacimenti oppure no. Tutto qui”. È anche la sintesi delle argomentazioni dei fautori del no.

Adesso proviamo a immaginare che uno storico del prossimo secolo, impegnato in una ricerca sulla Sardegna del 2016, legga il post del presidente Pigliaru e vada subito dopo a leggere i risultati del referendum: votarono “sì” 410.048 elettori sardi, pari al 92,40 per cento e votarono “no” (come il presidente Pigliaru), 33.739 elettori, il 7,60 per cento.

Possiamo scommettere che il nostro storico del futuro resterebbe alquanto perplesso. Rileggerebbe un paio di volte il post del governatore, controllerebbe nuovamente i dati. E si domanderebbe: perché il governatore della Sardegna, fautore del “no”, commentava come fosse una vittoria una sconfitta così schiacciante?

A quel punto dovrebbe approfondire. Prima di tutto studiare il regolamento dei referendum. Scoprirebbe che quel risultato non aveva alcun valore perché per la validità del referendum era necessario che andasse a votare – in tutt’Italia – la metà più uno dell’elettorato. Invece andò a votare circa un terzo. In Italia come in Sardegna. Quei 410.048 “sì” sardi (e quei 13.334.764 voti ‘italiani’) non producevano alcun effetto.

Chiarito questo aspetto, il nostro storico dovrebbe rifare i conti mettendosi dal punto di vista che, nel suo post, il governatore aveva adottato. Aveva sommato i 33.739 “no” ai più di 900.000 elettori che, semplicemente, erano rimasti a casa. Ecco perché parlava come se il “no” avesse vinto. In effetti, ragionando così, era il “no” ad aver vinto in modo schiacciante: quasi un milione di voti contro poco più di 400mila.

Tutto chiaro, dunque? Non proprio. Il nostro storico potrebbe decidere di non accontentarsi. E di andare a vedere i risultati di una votazione appena precedente: le “elezioni regionali” che si svolsero due anni prima, nel 2014. Quella volta gli elettori erano 1.480.332. E andarono a votare in 774.939, poco più della metà. La coalizione guidata dal governatore autore del post raccolse 312.982 voti. Curioso, circa centomila voti in meno del “sì” al referendum. Eppure quella coalizione vinse.

Nulla di strano. Semplicemente, per le elezioni amministrative come per quelle politiche non era necessario alcun quorum. Infatti esisteva una fascia di elettori (una fascia in crescente espansione) che non andava a votare mai. Sbuffando e ringraziando il Padreterno per averlo fatto nascere un secolo dopo, il nostro storico riprenderebbe in mano la calcolatrice. Dunque, nelle elezioni regionali del 2014 erano rimasti a casa, cioè avevano scelto di non scegliere, circa 700.000 elettori sardi. Poi nel 2016, in occasione del referendum, a quei 700mila se n’erano aggiunti altri 200mila.

Col cervello fumante, dopo ore di ulteriori ricerche, il poveretto scoprirebbe che le elezioni Regionali erano strutturate in modo tale da attirare l’elettorato molto più di un referendum. C’erano infatti centinaia di candidati, ciascuno dotato di amici e parenti. Mentre per il referendum c’era solo da rispondere a una domanda – che non riguardava in modo diretto la stragrande maggioranza degli elettori – e non c’era da eleggere nessuno. Dunque era ragionevole pensare che i 700mila che non erano andati a votare nel 2014, a maggior ragione non fossero andati a votare nel 2016. E che potevano essere ascritti al “no” solo i 200mila in più. Che, sommati ai “no” effettivamente espressi, portavano a un totale di meno di 250mila voti. Cioè oltre centomila voti in meno dei “sì”. Ma allora chi aveva vinto?

Bene. Adesso lasciamo in pace il nostro storico (che ha appena ingerito venti gocce della versione futura del Valium) augurandogli che il suo presente sia migliore del nostro. Torniamo ai nostri giorni. E torniamo al post del presidente Pigliaru. A quel riferimento al “momento del buon senso”.

A noi pare un’affermazione molto ottimistica. Anche un po’ azzardata. Perché questo “buon senso”, cioè il mancato raggiungimento del quorum, è il risultato della somma tra un po’ di “buon senso” (diamo per buono l’argomento dei fautori del “no”) e una quantità enorme di “non senso”. Il “non senso” verso le istituzioni, verso gli strumenti offerti dalla democrazia, di un numero crescente di cittadini sardi e italiani.

Quanto alla “banale” questione delle trivelle ci sarà tempo e modo per verificare se le preoccupazioni di quanti ritenevano inopportuno eliminare una possibilità di controllo da parte dello Stato erano fondate o meno. Le occasioni non mancheranno. Quanto, invece, alla disaffezione degli elettori verso gli strumenti di partecipazione democratica, sarebbe opportuno ragionarci tutti nel presente. In particolar modo chi, come il presidente Pigliaru, ha espresso il suo no andando alle urne. Cioè respingendo, con un gesto, quella commistione tra “buon senso” e “non senso” che invece ha accreditato nel suo post su Facebook. E che rischia di far precipitare nel vecchio, anzi nel vecchissimo della “non cittadinanza” e della demagogia, il nostro futuro politico.

Giovanni Maria Bellu

 

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