Si celebra la Giornata contro la violenza sulle donne. Ma le istituzioni di parità sono screditate e inattive

Eccoci di nuovo in prossimità del 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, istituita dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite e celebrata ben oltre quella singola data con iniziative pubbliche sempre più concentrate sulla violenza fisica (in particolare sui femminicidi), che non accenna a ridursi in nessuna parte del mondo. Sembrano invece diventate meno rilevanti le riflessioni su altre forme di violenza, che le donne di ogni età e classe sociale affrontano ordinariamente.

Se la violenza fisica aggredisce le donne singolarmente, c’è un’altra violenza che le colpisce tutte insieme. Incappiamo ogni giorno in qualcuno – ma anche qualcuna – che si sente autorizzato a rivolgere alle donne, in quanto tali, qualche tipo di offesa, verbale o scritta, perfino in forma di editto, di solenne pronunciamento sull’intera popolazione di sesso femminile; c’è sempre qualcuno convinto che sia consentito insultarci e fare di noi una “categoria” che può essere aggredita a colpi di stereotipi. E’ in questo contesto culturale, in cui vige una solida tolleranza nei confronti delle ingiurie alle donne, che si produce e riproduce la violenza.

In Sardegna le iniziative per il 25 novembre sono iniziate già da qualche giorno, con il convegno dal titolo “Codice Rosa: strategie e prassi per affrontare la violenza”, promosso dalla Commissione regionale per le pari opportunità, una istituzione screditata dalle inaudite affermazioni della sua presidente. La vicenda, scoppiata sui social network e sfociata in un incredibile nulla, è paradossale e paradigmatica allo stesso tempo. Il paradosso è particolarmente sconcertante, visto che la presidente di un organismo che “in applicazione dell’articolo 3 della Costituzione, opera per la rimozione degli ostacoli e di ogni forma di discriminazione diretta e indiretta nei confronti delle donne e per promuovere pari opportunità” (L.R. 39/89 art. 1), ha applicato un suo personalissimo determinismo genetico per individuare una specifica categoria di donne che avrebbe nel DNA – quindi dalla nascita – “l’essere una gran troia”. A raccontarla, questa vicenda che è insieme vergognosa e grottesca, sembra di sconfinare nel surreale, invece siamo nella realtà del XXI secolo e in un lembo del mondo più avanzato (suo e nostro malgrado).

La vicenda è anche paradigmatica, in quanto racchiude esemplarmente molti aspetti, più o meno dibattuti, della condizione delle donne in Italia, della minorità che connota la cittadinanza femminile in questo paese che vuol dirsi democratico, della sottovalutazione sostanziale e della sorprendente approssimazione con cui se ne discute, della placida tolleranza con cui è trattata. E’ una vicenda che sintetizza gli stereotipi più beceri e più comuni, il disprezzo spicciolo e istintivo che alle donne viene rivolto con frequenza ordinaria e con la facilità che è misura della sua normalità, gli atteggiamenti offensivi e violenti che in poche righe o con poche frasi – per giunta da pulpiti sempre più incredibili, un anno fa un docente universitario, quest’anno la presidente della Commissione regionale per le pari opportunità – riescono a calpestare anni di confronti e riflessioni, di analisi e tentativi di contrasto delle discriminazioni, di costruzione del rispetto tra i generi. E’ un terreno di faticose conquiste, quello delle battaglie per i diritti delle donne, e di facili arretramenti.

La vicenda è paradigmatica anche perché rende evidenti i meccanismi che puntualmente si attivano per ridimensionare la gravità degli episodi di violenta offesa delle donne, impedendo di sanzionarli e finendo in sostanza per renderli legittimi. Discutibili ma legittimi. Nei gravi episodi a cui abbiamo assistito in questi anni, si può individuare con chiarezza lo slancio con cui, dopo il primo momento di sconcerto, in molti/e corrono a spiegare, giustificare, a ricondurre i proclami offensivi a questioni personali sempre legittime, a scusare e proteggere chi pensa, scrive, pubblica offese violente nei confronti delle donne, perfino ad esaltarne il coraggio anticonformista, ribaltando sistematicamente i ruoli di chi infligge e di chi subisce le offese, in una confusione in cui nessuno è mai chiamato a rispondere dei propri comportamenti. Appare evidente l’estrema riluttanza con cui si applicano le sanzioni previste nel caso di ingiurie pubbliche rivolte alle donne, così ordinarie e impunite, ordinarie anche perché impunite.

Sono chiamate in causa, senza dubbio, le istituzioni di parità, a livello centrale e locale: il Dipartimento per le Pari Opportunità presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, platealmente inoperante, le Commissioni per le pari opportunità regionali, comunali, il Comitato Nazionale di parità presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, le Commissarie di parità regionali. Organismi in buona parte inattivi o che, per la loro intrinseca debolezza in termini di potere e di risorse ma anche per l’ambiguità delle nomine, svolgono attività poco rilevanti in confronto alle dimensioni e alla complessità dei problemi da affrontare. Anche i CUG, i Comitati Unici di Garanzia istituiti nel 2011 (che hanno incorporato le commissioni per le pari opportunità aziendali e operano per la valorizzazione del benessere di chi lavora e contro le discriminazioni), rispetto ai temi delle disparità di genere non danno segni di vita nella maggior parte delle pubbliche amministrazioni.

In Sardegna la situazione delle istituzioni di parità è drammaticamente degenerata rispetto ad anni in cui speranze e consapevolezze si legavano a buone competenze e passione, riuscendo a realizzare progetti e iniziative di buon livello. Oggi la Commissione regionale per le pari opportunità è presieduta dalla protagonista della vicenda richiamata all’inizio, le cui dimissioni sono state respinte (!), alla quale manca con tutta evidenza il quadro basilare delle consapevolezze necessarie a ricoprire il ruolo che le è stato attribuito, a dimostrazione che si tratta di istituzioni inservibili se non addirittura dannose. Non c’è modo di conoscere i progetti e le attività svolte da questo organismo, né di avere documentazione e riferimenti sulle iniziative promosse: è tuttora ospitata nel sito istituzionale della Regione, che non riporta alcuna informazione su ciò che fa questa commissione, composta – è bene ricordarlo – da donne elette su indicazione dei partiti.

Perfino più grave appare la situazione dell’Ufficio della Consigliera regionale di parità, presso l’Assessorato del lavoro, che avevamo conosciuto attivo e competente. La Consigliera regionale di parità è di nomina ministeriale su indicazione dell’Assessore regionale competente in materia di lavoro. L’ambito di intervento di questo organismo è cruciale e molto specifico, perché è nel lavoro che si costruiscono i diritti di cittadinanza ed è nel mercato del lavoro che si consolidano le disuguaglianze di genere. Più che occuparsi di rilevare e contrastare le discriminazioni nei luoghi di lavoro e le disparità nell’accesso al lavoro, l’attuale Consigliera di parità sembra essersi dedicata soprattutto alla democrazia paritaria e alla legge elettorale della Sardegna, che nulla hanno a che vedere con le sue funzioni, strettamente legate alla collocazione femminile nel mercato del lavoro. L’impressione amara è che il 25 novembre si celebri con istituzioni di parità screditate e inservibili.

Lilli Pruna

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