La riforma delle Fondazioni, un problema dello Stato (e della Sardegna)

Che s’avverta l’esigenza di meglio regolamentare e più attentamente controllare le discutibili attività delle fondazioni bancarie, non è certo solo un nostro “pallino”, visto che anche autorevoli economisti e giuristi “nazionali” vanno ormai affrontando pubblicamente questo problema. Con in più un’avvertenza: che occorre mettere mano, subito, ad una loro profonda riforma legislativa.

Nei giorni scorsi il professor Stefano Caselli, prorettore della Bocconi ed uno dei più autorevoli docenti italiani d’economia finanziaria, è sceso in campo sull’argomento con un interessante articolo pubblicato dal Corriere della sera.  Le tesi di Caselli non si discostano da quel che noi di Amsicora stiamo sostenendo da tempo, e cioè la necessità di sottoporre a vigilanza le attività delle fondazioni. Introducendo regole chiare e limiti precisi, in modo che si evitino quelle deviazioni, quelle incongruenze e quelle stranezze rilevate anche nel portafoglio d’investimenti della Fondazione Banco di Sardegna. Caselli sostiene l’esigenza di predisporre delle “norme severe che regolamentino i processi gestionali delle fondazioni”. Trasformandole così, da liberi battitori di affari più o meno controversi, in investitori istituzionali rigidamente vigilati.

Le norme suggerite dovrebbero mirare a: 1) costituire comitati di investimento responsabili e competenti, insieme all’obbligo di ricorso ad “advisor” esterni di comprovato valore; 2) introdurre regole di trasparenza, che rendano la Fondazione responsabile delle scelte di investimento effettuate, e tali scelte siano verificabili e valutabili da terzi; 3) spingere le fondazioni a dotarsi di un management qualificato e competente in materia di gestione finanziaria; 4) spingere le fondazioni a dotarsi di severi meccanismi di presenza nella governance nella banca di riferimento, attraverso la nomina di consiglieri indipendenti di comprovata esperienza e capacità tecnica, esercitando così un concreto ruolo di indirizzo strategico della banca.

Queste quattro regole, se riportate alla situazione attuale della “nostra” Fondazione, evidenzierebbero una sua profonda e radicale inadeguatezza a quei criteri di buongoverno a cui hanno fatto riferimento le osservazioni del professor Caselli. Perché sia negli indirizzi degli investimenti in essere, come nella governance interna ed anche nella rappresentanza nel CdA del Banco, non è facile individuare delle competenze che abbiano delle chiare e comprovate esperienze in gestioni finanziarie. Quasi che le scelte effettuate siano state dettate esclusivamente da criteri di appartenenza (al proprio clan partitico o similia). In buona sostanza, quelle quattro regole, se applicate, metterebbero rimedio ad altrettante criticità evidenziabili nella conduzione della Fondazione sarda.

C’è certamente una morale da trarre dall’articolo del professor Caselli. Ed è la constatazione che anche nelle sue valutazioni, le fondazioni, così come sono oggi regolamentate abbiano assolutamente necessità di una riforma: degli statuti, innanzitutto, e di regole e forme di controllo da parte dell’autorità pubblica. In modo che possano meglio operare nel rispetto di quel ruolo assai complesso che il legislatore ha affidato loro, poste a cavallo fra il dover essere degli esperti investitori finanziari e dei bravi promotori del welfare territoriale.

Vi è infatti una diffusa consapevolezza (fatto, questo, che sfugge alla politica sarda) che la stessa linea di demarcazione tra ente pubblico o privato risulti sempre meno netta e chiara. Ne fa testo, al riguardo, il continuo fiorire di studi, di pareri ed anche di arditi equilibrismi prodotti da diversi studiosi di scienze giuridiche e finanziarie. Incentrati in gran parte nell’esercizio di sofismi tra più arditi, campioni fra l’altro di quell’italica doppiezza, del tipo …privato ma non del tutto, …pubblico ma non proprio!

Quel che appare più grave è che in questa situazione d’incertezze e di dubbi sia stata proprio la peggior politica (quella, per intendersi, che pensa solo a sostenere se stessa) ad appropriarsi delle fondazioni, trasformandole in centri di potere e di reti clientelari. Che poi fossero targate Pd o Lega o Forza Italia, non farà distinzione. Questo è accaduto a Genova come a Siena, a Sassari come a Torino o a Milano.

Un esempio eclatante della debolezza gestionale di questi enti, è proprio la Fondazione sarda, dove anche i punti di criticità indicati dal professor Caselli ci sono tutti. Ad iniziare dalla partecipazione al capitale del Banco di Sardegna. Un impegno che è stato visto, purtroppo, come un passivo e remissivo interessamento al solo suo rendimento, e non certo – come dovrebbe il suo ruolo di stakeolder – di attiva e costruttiva partecipazione alle scelte strategiche della banca partecipata. Perché è poi questa la mission che il legislatore le ha affidato e che i proprietari del suo patrimonio (cioè i sardi) pretendono e s’attendono.

C’è poi il problema dell’entità della partecipazione al capitale del Banco, oggi attorno al 49 per cento. Attualmente, le direttive ministeriali intenderebbero imporne la limitazione ad un valore di non più di un terzo del patrimonio complessivo detenuto dalla Fondazione (in pratica attorno al 30 per cento). Cioè si dovrebbe cedere l’eccedente, offrendolo – come prescrive il patto parasociale vigente – all’altro azionista, cioè ai modenesi della Banca popolare dell’Emilia Romagna. In più, alcune recenti dichiarazioni di esponenti, sia dell’area di governo regionale che dell’opposizione, hanno espresso l’opinione che vada valutata la convenienza di disfarsi integralmente della partecipazione, oggi di “nominali” 352 milioni di euro.

Anche su questo fronte d’una rapida ed obbligante dismissione, il professor Caselli evidenzia alcuni pericoli, legati principalmente alla situazione attuale del mercato azionario e, conseguentemente, ad una probabile nocività patrimoniale.

Dentro queste ipotesi ci sono quindi due variabili: 1) se la politica regionale ritenga, o meno, il Banco di Sardegna, cioè una banca incardinata nell’economia locale, strumento indispensabile per promuovere lo sviluppo dell’isola; 2) se il rapporto con la Bper costituisca, o meno, un ostacolo perché la Fondazione possa ricercare investimenti non bancari o, comunque, al momento più redditizi. Sono delle variabili che riportano ambedue a dover richiedere alla politica una risposta chiara e decisa. Perché il credito, la sua disponibilità e la sua accessibilità, non può essere – per diffusa e concorde avvertenza – una variabile indipendente dalle politiche volte al sostegno o allo sviluppo dell’economia.

Ci sarebbe poi una terza variabile, con la quale occorrerebbe fare i conti. Cioè la valutazione dei progetti della Bper, impegnata alla realizzazione – come si è già avuto modo di ricordare – della “Grande Bper”, diffusa con le sue insegne esclusivamente sulla penisola. Mentre in Sardegna rimarrà, come colonia destinata solo a dover drenare altrove risorse, una piccola Bper, ridotta, da ricca principessa che era nel 2000, a semplice ed impoverita cenerentola, vittima di una spiacevole storia di malabanca.

È difficile capire se alla Fondazione si siano resi ben conto di quanto sta avvenendo. E di quel che le stanno confezionando al di là del Tirreno. E di come pensino di gestire una situazione critica che rischia di privare definitivamente la Sardegna di una delle sue più importanti risorse strategiche.

Due piccoli passi propedeutici ci sentiremmo di proporre alla Fondazione. Il primo, l’inserimento nel CdA del Banco di almeno due o tre consiglieri indipendenti “di comprovata esperienza e di capacità tecniche nel settore”, in sostituzione degli attuali (vedere quanto fatto al Monte Paschi), in modo che possano incidere sugli indirizzi strategici, arginando lo strapotere modenese. Il secondo, la disdetta, da subito e con sei mesi d’anticipo sul previsto, del patto parasociale con la Bper, scadente nell’ottobre del prossimo anno, e, contemporaneamente, rinegoziarne una nuovo, anche per verificare de visu le strategie prossime di quella banca. Tutelandosi, così, da probabili pericoli di ulteriori minusvalenze.
Ma c’è – domandiamo in conclusione – la disponibilità e la volontà, nei vertici della Fondazione innanzitutto, per arrivare ad un decisivo e chiarificatore show-down con la Banca Popolare dell’Emilia Romagna?

Amsicora

 

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