Tutto quello che ha voluto dirci (e lasciarci) un anno feroce e beffardo

Ogni anno, quando sta per finire, viene trasformato dai media, ma in fondo da ognuno di noi, in una sorta di divinità che, prima di andare a confondersi tra le altre divinità dell’Olimpo, deve aver per forza lasciato un qualche messaggio. Che noi, poveri uomini, tentiamo di individuare mettendo assieme, per il solo fatto che sono avvenuti nell’ambito degli stessi dodici mesi, una serie di eventi diversissimi tra loro. Si tratta di un esercizio del tutto arbitrario, privo di qualunque base scientifica, nel quale però tutti ci cimentiamo. Dare un nome, individuare, all’interno di un anno, una tratto unificante, un “filo rosso”, è un modo di illuderci di governare il caos. Ci rassicura.

Così anche noi abbiamo realizzato – sforzandoci di essere il più possibile obiettivi – la nostra brava lista di top news del 2016. Alla fine del lavoro di raccolta, abbiamo ragionato su quale sia stato in Sardegna il “filo rosso” che le unisce. E abbiamo tratto la conclusione che a tenere assieme buona parte dei fatti più rilevanti avvenuti nell’Isola nel 2016 è il rapporto tra la popolazione e il territorio. A partire dalla notizia più triste: la scomparsa di Pinuccio Sciola.

Se andiamo a vedere i vari “bilanci dell’anno” realizzati in questi giorni dai media nazionali e internazionali, scopriamo che sono in tanti a individuare il “filo rosso” delle notizie nazionali e internazionali nella grande quantità di lutti che ha colpito il mondo della cultura, da Dario Fo a Umberto Eco, da David Bowie a Michael George. La scomparsa di Pinuccio Sciola dunque “avvicina” il 2016 sardo a quello nazionale e mondiale. Anche noi abbiamo perso un grande artista e il suo genio gentile e tenace. Noi, però, abbiamo avuto in eredità non solo la sua opera immensa, ma anche – e questo non è frequente – un progetto che ci chiama in causa tutti, come collettività e come individui.

Non è un’iperbole. Al progetto di fare della Carlo Felice una “scultura di 240 chilometri” può davvero collaborare chiunque, ovunque si trovi. Per la realizzazione delle opere – era questa la volontà di Sciola – tutti gli artisti del mondo. Per l’avvio e la gestione, tutti i cittadini della Sardegna. Non solo perché per realizzare un’impresa di queste dimensioni è necessario il sostegno delle istituzioni elette dai cittadini, ma anche perché in ogni sua tappa – cioè nella posa di ogni opera – il sogno di Sciola incontrerà un territorio con la sua gente. E soltanto con la loro condivisione potrà andare avanti.

Ecco dunque la prima riflessione su quel che ci lascia il 2016 che se ne va: un progetto che si fonda sull’idea che la bellezza è un diritto da esercitare. “La bellezza è una questione politica. Ogni volta che la scordiamo e che la consideriamo secondaria ci ritroviamo in mano a governanti che della politica non hanno alcuna visione estetica e che, convinti che il mondo si possa ridurre a funzione, agiscono dimenticando che, invece, è relazione”. Questa frase è tratta da Futuro interiore, un breve saggio di Michela Murgia pubblicato da Einaudi proprio nei giorni in cui Sciola se ne andava.

Esiste un legame strettissimo – ci ha detto il 2016 – tra il modo in cui arrediamo gli spazi e le relazioni che vogliamo stabilire tra quanti li popolano, cioè tra noi. Un legame, del resto, confermato dall’altro gruppo di top news dell’anno, quelle relative all’ambiente.

A vederle una dopo l’altra si resta impressionati per come, nel loro insieme, costituiscono una sintesi perfetta dei diversi modi di cui l’uomo dispone per compromettere, se non addirittura distruggere, i luoghi in cui vive. Nel 2016 abbiamo avuto – dall’Università di Firenze e dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sull’uranio impoverito – i dati sull’altissimo tasso di inquinamento (e la maggiore incidenza di tumori) nei territori confinanti col poligono di Teulada dove da decenni si combattono guerre simulate. E abbiamo anche scoperto (non solo noi, a dire il vero, ma anche i movimenti pacifisti europei) che nel nostro territorio, a Domusnovas, esiste una fabbrica di micidiali ordigni esplosivi che vengono utilizzati dall’Arabia saudita, nello Yemen, per una guerra vera che ha già prodotto migliaia di vittime. Abbiamo anche avuto – con la bocciatura del cosiddetto “Progetto Eleonora” – la prova del fatto che una popolazione coesa e determinata (nel caso specifico quella di Arborea) è in grado di difendere efficacemente il proprio territorio. E, con l’intervento del ministero dei Beni culturali che ha bloccato il taglio di 550 ettari di lecceta sul Marganai, abbiamo scoperto che tra i nemici dell’ambiente possono esserci anche soggetti che avrebbero il compito istituzionali di difenderlo.

Se mettiamo assieme i primi due gruppi di notizie (i lutti e l’ambiente), scopriamo che il 2016 ci ha detto che il territorio in cui viviamo è esposto a molti pericoli, ma che il suo destino può tornare nelle nostre mani. E fa una certa impressione il confronto tra la quantità e le qualità dei fatti che pongono a tutti noi una domanda decisiva – cosa vogliamo fare della nostra terra? – e la pallidissima presenza di questo tema nel dibattito pubblico.

Questa seconda riflessione ci porta a un altro gruppo di notizie, quelle relative alla politica. Qua incontriamo soprattutto macerie. L’inchiesta su Sindacopoli ci ha fatto scoprire un sistema di relazioni corruttive che coinvolgeva amministratori, tecnici e imprenditori che si spartivano gli appalti in tanti piccoli paesi della Sardegna, ma anche nella realizzazione di un’opera strategica come la Sassari-Olbia. E’ molto simbolico il fatto che il più grande scandalo politico-giudiziario abbia a che fare con una strada, proprio come il sogno di Pinuccio Sciola. E quasi viene il dubbio che davvero il 2016 non sia il frutto di una convenzione chiamata calendario, ma di una beffa degli dei, quando constatiamo che la prima top news del settore scientifico è la vendita a una società inglese della nostra banca del DNA e la prima del settore economico è la vendita al fondo investimenti del Qatar di uno dei nostri centri di eccellenza ospedaliera.

Ma l’anno che se ne va non si è limitato a ricordarci che dobbiamo aver cura del luogo in cui viviamo, e di farci sapere che possiamo perderlo a causa dell’inquinamento o della finanza internazionale o dei disonesti. Ha anche voluto dirci di non illuderci di risolvere il problema nel modo più semplice: chiudendoci in noi stessi, facendo del nostro rinomato “orgoglio identitario” una corazza o un muro, come oggi di moda. Ci ha detto che, al contrario, siamo pienamente dentro il mondo. E dentro i suoi orrori. A uno di noi, Fausto Piano, è capitato di morire in quello stesso inferno libico da cui sono fuggiti molti dei 7000 migranti che nel corso di quest’anno sono stati portati nel nostro territorio dalle navi di soccorso che operano nel Mediterraneo. Sì, certo, non tutti fuggono dalla guerra. Ci sono – la distinzione è entrata nel linguaggio – i “rifugiati” e i “migranti economici” (quasi sempre sono tali i ragazzi algerini che sbarcano nel Sulcis con le loro barchette). Ma tutti sono parte di quel gigantesco movimento di esseri umani che sta creando un certo subbuglio in ogni parte del Pianeta e davanti al quale tutti siamo chiamati a dire se intendiamo difendere i principi fondamentali della Costituzione (la prima parte, quella che viene sistematicamente irrisa da alcuni di quanti, in occasione del referendum del 4 giugno, chissà perché difendevano strenuamente la seconda) o se, invece, intendiamo intraprendere un’altra volta la strada del razzismo e della barbarie. Che hanno assunto volti moderni e quasi sbarazzini. Inaspettati. Quello di un miliardario americano o di un populista felpato padano. A tratti, addirittura, il volto di un comico genovese.

Prima di giungere alla conclusione che il “filo rosso” del 2016 sardo è il rapporto tra popolazione e territorio, ne avevamo individuato un altro. Che, tra l’altro, aveva il vantaggio di essere comune a quello nazionale e internazionale e di essere anche coerente con la notizia più triste. Ma se abbiamo, alla fine, scartato l’ipotesi di individuare nella morte (non solo degli artisti, ma delle vittime del terrorismo, dei naufragi, delle catastrofi naturali) il “tratto comune” di questo 2016 non è stato soltanto perché è un concetto incompatibile con giornate di feste e di reciproci auguri. Il fatto è che ben due delle nostre top news la richiamano in modo esplicito, e radicale. Parliamo della scomparsa di Salvatore Usala e di Walter Piludu che, totalmente paralizzati dalla Sla, hanno avuto la forza e la determinazione di mettere in relazione il proprio destino con quello del prossimo. E l’hanno fatto per difendere il valore più importante tra quelli oggi in discussione. Il valore della dignità. Se l’abusata definizione di “eroe” ha ancora un senso, possiamo dire che in questo 2016 due di noi hanno acquisito il diritto e fregiarsene per sempre.

Giovanni Maria Bellu

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