Primarie del Pd, votare o non votare? Il dilemma del popolo democratico smarrito

Il Partito democratico sceglie il suo segretario nazionale e, in Sardegna, anche il suo segretario regionale. Si ripete, in un clima mesto e avvelenato, il rito delle primarie, inaugurato nel 2007 dai tre milioni e mezzo di cittadini che elessero il primo segretario, Walter Veltroni. Se questa volta se ne presenterà alle urne la metà sarà, secondo l’opinione degli stessi vertici democratici, un successo clamoroso. E questo già dice molto.

I candidati sono tre in campo nazionale (Matteo Renzi, Andrea Orlando e Michele Emiliano) e due in Sardegna: un senatore, Giuseppe Luigi Cucca, e un deputato, Francesco Sanna. Il primo ha 59 anni, il secondo 52. Di professione fanno gli avvocati e hanno avuto un percorso politico molto simile tra loro e molto simile anche a quello di Matteo Renzi, del quale entrambi sono sostenitori: dalla Democrazia cristiana, al Partito popolare, al Partito democratico.

Il popolo del Pd è smarrito. Perché è vero che il partito è per larga parte con Matteo Renzi, e con tutta probabilità lo sarà anche la grande maggioranza di quanti andranno a votare alle primarie, ma è anche vero che ha perso alcuni esponenti di rilievo che sono diventato suoi oppositori. E uno dei tre candidati alla carica di segretario nazionale, Michele Emiliano, conduce una campagna elettorale così aspramente critica verso la maggioranza del Pd che è complicato comprendere perché non se ne sia già andato altrove.

Sardinia Post ha fin dalla fondazione una chiara linea politico-editoriale. Sosteniamo le forze progressiste che perseguono la difesa dei fondamentali valori costituzionali. Ovvio, dunque, che guardiamo con attenzione e preoccupazione a queste primarie. Anche perché riteniamo che oggi più di dieci anni fa sia necessaria al Paese una forza democratica e progressista. Il problema è che un numero crescente di cittadini che condividono questa impostazione non è più affatto certo che il Pd sia quella forza politica e le ultime vicende hanno portato molti a concludere che non solo non lo è, ma non potrò nemmeno diventarlo. E’ questa la ragione per cui per molti di quanti negli anni passati si sono riconosciuti nel Pd oggi non si  chiedono “chi” votare, ma “se” votare.

Dilemma che forse sarebbe più facile sciogliere se al di fuori del Pd esistesse qualcosa di simile al Pd come lo si era immaginato, o forse sognato. Ma questa cosa non c’è. Se ne sono intravvisti i contorni nell’azione avviata dall’ex sindaco di Milano Giuliano Pisapia. Ma non è ben chiaro ancora che forma prenderà. Se riuscirà a essere il luogo d’incontro di quanti vogliono lavorare per l’unità dei democratici e dei progressisti italiani o l’embrione di un nuovo partito di sinistra destinato a mettere assieme, in vista delle elezioni, personaggi che altrimenti rischierebbero di restare fuori dal Parlamento. Alcuni dei quali, dopo aver attivamente operato nel Pd per il fallimento del centrosinistra, sembrano ora impegnati nella storica operazione di distruggere – con la loro presenza – anche quel che resta della sinistra.

Se si guarda nel Pd, più che dal confronto tra idee si resta colpiti dalla compattezza degli schieramenti interni, altrimenti detti “correnti”.  Matteo Renzi, conta sul sostegno di un ceto politico il cui futuro dipende da lui, mentre si è appannato o se ne è già andato il sostegno di quanti avevano visto in lui la personalità in grado di liberare il Pd dai metodi correntizi e dalla chiusura alla società civile che alle precedenti elezioni politiche l’hanno condotto sull’orlo di un devastante sconfitta e poi, in Parlamento, all’omicidio di Romano Prodi sulla soglia del Quirinale. Questo al netto dei vari errori che Renzi ha commesso. Dalla presa di posizione sul referendum anti-trivelle a quello, davvero madornale, della personalizzazione della campagna referendaria per la riforma costituzionale. E’ curioso tuttavia che tra quanti li contestano con una durezza che sfiora la ferocia siano soggetti che hanno compiuto errori non meno gravi non per tre anni, ma per alcuni decenni. A partire (errore che invece Renzi non ha compiuto) dall’aver trascurato i problemi dell’immigrazione fino ad affossare la legge per il diritto d’asilo.

Che il Pd sia imprigionato nei conflitti correntizi lo dimostra anche il confronto in atto in Sardegna. Nei giorni scorsi abbiamo organizzato nella nostra redazione un faccia a faccia tra i due candidati isolani e abbiamo constatato che non sono divisi da questioni relative al merito e al programma – su quello sono sostanzialmente d’accordo (d’altra parte entrambi sostengono Renzi) – ma dalla valutazione su come il partito è stato gestito fino a ora. La questione di “chi comanda” pare essere l’aspetto fondamentale, indipendentemente da quel che dice e che vuole fare.

Oggi chi si iscrive al Pd (e non a caso sono sempre di meno) spesso non sa se sta entrando in un partito o nell’anticamera di un labirinto. Anticamera sulla quale si affacciano varie porte. In Sardegna se ne apri una trovi Antonello Cabras, se ne apri un’altra Renato Soru, un’altra ancora ed ecco Siro Marrocu. O Paolo Fadda. Per fare solo alcuni dei nomi dei capicorrente isolani. Rispettabilissime persone. Ma queste granitiche presenze, mentre rassicurano il ceto politico di rispettivo riferimento, spiazzano i normali elettori. Se uno dei primi compiti di un partito, anche solo un po’ democratico, è dare a tutti pari opportunità, come è possibile che vengano negate in partenza obbligando chi si avvicina a scegliere una corrente per avere una voce? Ma poi, una voce per dire cosa visto che i capicorrente che si combattono qua sono tutti sostanzialmente d’accordo con Renzi, dopo essere stati tutti sostanzialmente d’accordo con Bersani?

Celebrando a modo nostro l’ottantesimo anniversario della morte di Antonio Gramsci, nei giorni scorsi abbiamo raccontato un aneddoto risalente a quasi trent’anni fa, quando ancora esistevano Il Pci, l’Unione sovietica e il Muro di Berlino. Protagonista, Umberto Cardia, deputato, eurodeputato, storico dirigente del Pci sardo e studioso di Gramsci. Il quale, all’epoca sessantasettenne, si rifiutò di rispondere a una serie di domande che riguardavano il dibattito allora in atto tra i comunisti isolani per una sola ragione: “Sono un uomo anziano. Un vecchio. E non c’è niente di peggio di un vecchio che intriga o anche solo dà l’impressione di intrigare”.

Quella massima di antica saggezza dovrebbe essere secondo noi presa seriamente in considerazione dal Partito democratico. Se davvero i capicorrente vogliono eliminare le correnti, prendano atto del fatto che il metodo non è quello dell’accordo tra loro. Questo metodo è già fallito. Promuovano la nascita di una classe dirigente nuova, basandosi sulle capacità, non sulla fedeltà. Avviino quel processo che dovrebbe essere il compimento del percorso politico di ogni leader: passino il testimone ad altri, più giovani e comunque estranei alle ruggini e agli odi del passato. Gente in grado di guardare avanti. Sarebbe un atto di grande coraggio e nobiltà. Ma non se ne vedono i segnali.

Che fare, dunque? La necessità di un partito progressista e la sostanziale assenza di alternative visibili suggerirebbe di votare. Magari turandosi il naso. Magari per l’ultima volta. Magari, per chi proprio non ce la fa, scheda bianca. Ma sappiamo che per tanti la delusione ha raggiunto livelli irreversibili. In tal caso, c’è da sforzarsi per evitare che dal Pd questa frustrazione si trasferisca agli istituti democratici, ai principi fondamentali. Come, per esempio, quello del diritto d’asilo e del dovere di soccorrere chi rischia la vita. Siamo, infatti, ormai a questo: alla negazione, a fini di propaganda, non dei valori costituzionali ma di quelli umani. E la necessità di arginare questa meschina deriva dovrebbe valere molto più delle prospettive politiche e delle ambizioni dei singoli.

Giovanni Maria Bellu

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