Povera Sardegna, se affida lo sviluppo agli ospedali…

C’è qualcosa che proprio non va in questa nostra Sardegna. Ed il nuovo, per dir così, è sempre un déjà vu. Ci si riferisce al fatto, osservato in questi giorni, come la costruzione di un più nuovo e bell’ospedale (il vecchio esiste già) nel Medio Campidano sia divenuto per la politica locale il totem inviolabile dello sviluppo e del progresso per un territorio che appare, per la quasi totalità degli indicatori, in progressiva depressione. Nella speranza, sembrerebbe di capire, che le potenzialità di quel nuovo nosocomio da 138 miliardi di vecchie lire (superggiù 7,2 milioni per abitante) possano curare e guarire i 105 mila beneficiari da una grave infezione economica dal non lavoro.

Certamente erano stati più attenti all’economia ed al benessere del territorio quei vecchi signorotti delle miniere che negli anni ’30 costruirono a San Gavino una moderna fonderia elettrica per le galene argentifere estratte dai cantieri circostanti.

Ora, perché, dunque, un déjà vu, un già visto? Nella Sardegna dei primi decenni post-unitari – ricordano i memorialisti – allorquando la miseria e la fame formavano il tessuto connettivo di tanti nostri paesi, alcuni capoccia politici animarono la rivolta dei loro “zilioti” per ottenere dai ministeri romani chi una caserma dei reali carabinieri e chi una pretura: quasi che il benessere si ottenesse con le manette o con le sentenze. Ma non è finita: nel secondo dopoguerra, allorquando scoppiò la febbre dei caseifici e delle cantine sociali, non ci fu paese che non volle il suo opificio, tant’è che nel 1980 la potenzialità di trasformazione raggiunse quattro volte la quantità del latte isolano disponibile (e due terzi dei caseifici fecero default), mentre una sola cantina s’era dotata di una linea d’imbottigliamento per un milione e mezzo d’ettolitri di vino, quasi due volte le produzioni sarde totali (ed oggi, naturalmente, è chiusa).

Perché, ancora, si è ricordato questo? Perché confondere lo sviluppo economico con il decoro ed il prestigio del proprio campanile (con il caseificio o il nosocomio con lo stemma comunale) può essere additato, in tanti casi, come uno spreco sociale. Chi scrive non ha, confessa, competenze sulla Sanità ed i suoi problemi odierni, ma ha memoria lunga per ricordare che quando negli anni ’50 un assessore alla sanità regionale, certamente il più grande di tutti, redasse un piano per creare i primi presidi ospedalieri per la Sardegna interna, indicò nelle ore d’auto di percorrenza il raggio di distanza d’ogni distretto con l’ospedale di pertinenza (non diversamente da come nell’800 erano le ore di cavallo per le condotte mediche). Nel piano sanitario d’oggi pare invece che le regole siano altre, e riguardino, più o meno, il quintalaggio “politico” – in voti elettorali e in audience di clan – d’un onorevole o di un assessore.

Certo, i tempi sono ben differenti e assai diverse le esigenze, ed in Sardegna il governo della sanità non aveva allora il potere di oggi, per valori di bilancio e per vastità del peso corporativo e clientelare. Non era, per dirla tutta, quel “moloch” che oggi si mangia gran parte del bilancio regionale.

Perché se ne scrive allora? Perché pensare che lo sviluppo ed il benessere del Medio Campidano siano legati a realizzare un nuovo e costoso ospedale, e non a nuovi proficui investimenti in attività produttive che moltiplichino ricchezza, e non la consumino come la nostra Sanità, parrebbe un nonsense, così come si esprimerebbe un inglese. A cui, riflettendoci seriamente e senza suonare campane a stormo, cercare di porre rimedio o correzione.

Forse – per non ricadere in quel déjà vu – sarebbe bene consigliare al Presidente Pigliaru che, per meglio governare la sanità sarda d’oggi senza sprechi né campanilismi, non si dovrebbe rivolgere ad un medico o ad un veterinario, ma chiamare in viale Trento un esperto economista di Harward od uno specialista della spending review della Bank of Scotland (quelli dal braccino corto).

Paolo Fadda

 

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