lilli_pruna

Ma la politica li vede i precari con i capelli bianchi?

Raccontiamolo il lavoro a chi fa le riforme guardando altrove, pensando non a chi lavora o vorrebbe farlo ma a chi detta le scelte economico-finanziarie in Europa, quelle scelte che nel 2020 ci faranno arrivare a 140 milioni di poveri, secondo le stime della stessa Unione Europea citate nella Strategia 2020 (figurarsi che strategia). Chi vuole riformare il mercato del lavoro italiano dovrebbe averle ben presenti le persone che lavorano e quelle che un lavoro non riescono a trovarlo, con le loro storie e le loro facce diverse ma i destini sempre più uguali, difficili e incerti.

Vorrei raccontare il lavoro e il non lavoro che ho intorno, all’università e fuori. Conosco solo adulti precari o disoccupati, persone sopra i 30 anni e anche i 40 e persino i 50, molte sono donne, sono le persone che il governo e la classe politica non vedono (se le vedessero, come potrebbero sentirsi in diritto di percepire vitalizi da 5.000 euro al mese?). Non li vedono perché sono persone adulte che hanno vite dignitose, molte hanno figli e famiglia, non espongono i loro disagi e non protestano sotto il Consiglio regionale. Sembrano condurre una vita normale, ma non è normale essere adulti senza un lavoro e senza un reddito o vivere con la paura costante del lavoro che finisce. Non è normale e non è giusto e non è civile.

Vorrei raccontare del tanto lavoro che serve e del poco lavoro pagato e rispettato. Vorrei raccontare del cinismo e dell’arrivismo che hanno preso il posto della solidarietà (quella che spinge persino a morire per cercare di salvare un compagno di lavoro, come è avvenuto per l’ennesima volta qualche giorno fa a tre operai in provincia di Venezia). Vorrei raccontare dell’irrilevanza del merito, e delle ingiustizie che sono sempre un danno collettivo più ancora che individuale.

L’università si regge in misura crescente sul lavoro precario di ricercatori non più giovani, che per anni e anni collaborano quasi gratis alla didattica e alla ricerca, senza un ruolo e senza neppure il diritto ad essere chiamati con il proprio mestiere (li chiamano con il nome dei loro contratti: “borsista” – come se fabbricassero borse – “assegnista”, come se stampassero assegni): fanno il mio stesso lavoro ma sono pagati di meno e non hanno diritti, neppure quello di essere chiamati ricercatori. E’ una disuguaglianza pesante, che deriva dalle disparità contrattuali. Dovremmo avere le stesse condizioni di lavoro (niente di straordinario: 2.000 euro al mese per un lavoro senza orari e senza feste comandate), magari anche migliori – non necessariamente dal punto di vista economico – se ha ancora un senso l’idea di progresso; mentre non sarebbe di vantaggio a nessuno renderci uguali peggiorando le mie condizioni di lavoro. Io lavoro male perché ho colleghe e colleghi precari, mentre loro non starebbero meglio se fossi precaria anch’io (lo sono stata nella vita, il primo contratto a tempo determinato è arrivato a 43 anni): è la loro precarietà che danneggia il lavoro che facciamo, lo affatica e lo umilia, non la mia stabilità.

Se vogliamo tenere con noi queste colleghe e colleghi e avvantaggiare la produzione scientifica con le loro intelligenze dobbiamo fare progetti per pagare i loro contratti – e se scriviamo progetti non scriviamo libri – ma poi i soldi finiscono e non sai come fare a trovare altri fondi per non interrompere i loro studi e le ricerche, e la loro vita di lavoro. Non importa se sono bravi ricercatori e ricercatrici, se ricevono riconoscimenti (persino l’abilitazione scientifica nazionale), perché non c’è merito che valga un posto di lavoro come si deve, in questo paese. Le riforme sono state sempre tagli di risorse e di posti. I pochi posti banditi con il contagocce vengono accaparrati dai più forti, non dai più bravi, e mentre gli arrivisti sgomitano per le loro carriere, senza nessuno scrupolo per le sorti degli altri, c’è chi rimane fuori e ha ormai i capelli bianchi.

Ecco che cosa è diventato il mondo del lavoro, dopo la flessibilizzazione selvaggia degli ultimi vent’anni: uno spazio feroce, in cui si esercita la sopraffazione, lo sfruttamento, e si coltiva l’individualismo più meschino. Raccontatecela ancora una volta – come direbbe un’altra amica senza lavoro – la bella storia della società della conoscenza, della new economy, della meritocrazia.

Le nuove riforme dovrebbero partire da qui: la qualità di ciò che facciamo dipende dalla qualità delle condizioni in cui lavoriamo, la serietà del nostro impegno dipende dalla serietà delle istituzioni, ciò che è giusto e ben fatto dipende da quanto è appagato il senso di giustizia.

Lilli Pruna

Diventa anche tu sostenitore di SardiniaPost.it

Care lettrici e cari lettori,
Sardinia Post è sempre stato un giornale gratuito. E lo sarà anche in futuro. Non smetteremo di raccontare quello che gli altri non dicono e non scrivono. E lo faremo sempre sette giorni su sette, nella maniera più accurata possibile. Oggi più che mai il vostro supporto è prezioso per garantire un giornalismo di qualità, di inchiesta e di denuncia. Un giornalismo libero da censure.

Per ricevere gli aggiornamenti di Sardiniapost nella tua casella di posta inserisci la tua e-mail nel box qui sotto:

Related Posts
Total
0
Share