Paolo Fadda: “La Sardegna è sommersa dai problemi. Ma non se ne discute: si grida”

Quali scelte per il necessario e urgente risveglio della Sardegna intenda attuare la classe politica (quella oggi al governo e quelle che intendono succederle), rimane oggi uno dei più fitti misteri. Perché di economia e di sviluppo da quelle parti se ne parla molto poco e se ne scrive assai meno, e quel poco è, in gran parte, frutto di semplici rivendicazioni settoriali e corporative. Quasi sempre accompagnate da proteste rumorose che fan da  prologo alla richiesta di elargizioni molto spesso al di fuori d’ogni logica generale e di una visione “globale” dell’economia regionale. Quasi che il fare la voce sempre più minacciosa ed il fare sempre più baccano siano i pass-partout necessari per ottenere provvidenze ed aiuti dalla istituzioni pubbliche. Risultanti sempre più deboli ed imbelli, oltre che pronte e disponibili ad arrendersi incondizionatamente.

Ora, che queste scomposte manifestazioni di protesta possano essere catalogate – come avrebbe fatto un leader sindacale del passato – come dei cattivi esempi d’infantilismo sindacale può essere anche possibile.Ma a questo però dovrebbe essere aggiunto, a giustificazione, un giudizio, altrettanto tranchant, sull’infantilismo politico degli attuali nostri governanti. Può essere questo un giudizio troppo severo ed anche semplicistico, ma è purtroppo molto chiaro che l’attuale classe politica, insicura e ben poco coesa, pare andare al traino delle emergenze, a iniziare da quelle più “gridate”, quasi fosse una sorta di “centodiciotto” delle crisi sociali. Perché di come operare, e verso quali obiettivi indirizzare il risveglio socio-economico della nostra isola non se ne intravvede traccia.

Eppure ci sarebbero tutte le ragioni perché si discutesse su quale futuro dare a questa Sardegna in panne. Dalle parti dei “palazzi” regionali parrebbe che si voglia ignorare quel che è avvenuto nell’Isola nell’ultimo quarto di secolo:  un vero e proprio cataclisma socio-economico che ha sconvolto un po’ tutto l’esistente, dagli assetti industriali agli equilibri geografici ed ambientali, sino agli stessi modi di vivere, di lavorare, di pensare e di ragionare della nostra gente. Ed è stato un cataclisma che ha travolto e cancellato progressi e conquiste faticosamente conseguiti nei decenni precedenti, riportando l’Isola dentro quel passato di difficoltà e di miseria che si pensava d’avere definitivamente dimenticato.

Può essere anche questo un giudizio eccessivamente drastico e severo? Forse lo è, perché il gradiente di civiltà civica, e di quel che viene chiamato comunemente welfare (il benessere sociale), non è più quello d’allora. Certamente oggi si vive meglio di settant’anni fa, ma è il futuro che preoccupa, pare offuscato da pesanti nebbie. Ci sono infatti dei dati che possono attestare l’entità del cataclisma vissuto dall’Isola dai primi anni ’90 in poi. A iniziare dalla caduta verticale del sistema produttivo (dall’industria all’agricoltura ed ai servizi) e dalla crescita a dismisura della dipendenza, sia in prodotti importati che in trasferimenti in denaro. Tanto da ritenere che la ricchezza prodotta nellIisola oggi raggiunga a stento il 50 per cento del fabbisogno totale: nel 1980 raggiungeva il 78 per cento. In più, questa decrescita generale è divenuta una costante dei rapporti statistici isolani.

Affermare che siamo di fronte a una situazione difficile, di indubbia pericolosità, non è fare del facile allarmismo: va inteso infatti come un segnale d’avviso per fermare ed invertire questo trend negativo. Cercando di mobilitare quante capacità ed intelligenze siano oggi disponibili a un “consulto” per trovare i rimedi atti a far uscire l’economia isolana dalle sale di rianimazione ove si trova.

Purtroppo, e lo si scrive con profonda amarezza, l’economia (con la sua salute) è ormai divenuta la Cenerentola dei nostri problemi, messa da parte dai nuovi incalzanti miti dell’indipendenza politica o dell’ecologia sovrana. Non si legge, né si discute, se nel nostro futuro di cambiamento e d’innovazione ci debba essere più software (informazioni) che hardware (ferramenta) o se produrre motori o calzature sia, o meno, compatibile con la nostra identità, più che, magari, torrone o bottariga. Né ci si confronta più se il paesaggio debba restare intangibile come voluto dalla natura e dai suoi eventi o, invece, possa essere antropizzato per divenire agrario, industriale o, magari, golfistico. E non si è più appreso alcunché se sia nocivo, o meno, per il sostegno ad uno sviluppo endogeno, il fatto che le banche oggi ragionino solo in modenese o torinese, e non più in tattaresu o casteddaiu, con il risultato che i finanziamenti alle nostre imprese vadano sempre più giù.

In più ci si ribella per lo scippo del grano “senatore Cappelli” (una semente ereditata dalle camicie nere) e non si fa nulla perché i ricavi per ettaro delle nostre campagne rimangano appena la metà di quelle venete o pugliesi. Così si continua a difendere il pecorino “tipo romano” che i mercati valutano attorno a 5 euro al chilo, e non si propone di favorire la façon di nuove tipologie ovine, molli e fresche, che prezzano due volte tanto e darebbero minori angosce ai nostri pastori… Non diversamente accade per l’industria vinicola che in questi ultimi trent’anni ha visto ridursi di oltre un terzo le sue produzioni, per via degli espianti, nel silenzio assoluto della politica regionale (contro i 5 milioni e passa di ettolitri della Sicilia stanno, più o meno, i nostri 500 mila: il 10 per cento).

C’è dunque un’ampia agenda di problemi aperti dinanzi a noi su cui confrontarsi, discutere e misurarsi anche politicamente. Avanzando soluzioni, correzioni, alternative. È difficile capire cosa pensi questo o quel partito, questo o quel politico. Neppure l’avvicinarsi dei confronti elettorali ha permesso di conoscere quali intendimenti e quali scelte verranno proposti dai diversi schieramenti. Una lettura dei siti “social” è abbastanza indicativa di come lo sviluppo economico (come e dove effettuarlo) sia stato rimosso dall’interesse generale. Ci si confronta, ci si divide e ci si accapiglia, sugli immigrati o se il divorzio alla catalana sia proponibile o meno per la nostra Isola, ma di come predisporre un piano che rilanci la nostra economia o che rivendichi la necessità di favorire la localizzazione di nuovi opifici, non si legge niente, o quasi (forse dei decisi NO ad un nuovo investimento o ad una fabbrica).

Occorrerebbe invece poter mettere in campo delle idee innovative su cui discutere, dei progetti su cui confrontarsi. Ponendo come primo obiettivo quello di dover diminuire il nostro tasso di dipendenza, attraverso un deciso incremento delle capacità produttive dell’Isola. Certo, non c’è più posto per un’’industrializzazione tayloristica, dalle gigantesche macchine in grandi ed assordanti capannoni, ma si potrebbe mettere insieme un ambiente favorevole per creare stretti collegamenti operosi, in chiave innovativa e sinergica, fra agricoltura ed industria, fra studi universitari ed attività d’impresa. Iniziando a far sì, per esempio, che le molte start-up di cui si parla (e ci si vanta) non siano costrette a rimanere sempre minuscole, condannate ad una vita di stenti e ad una precoce scomparsa.

Voler procedere in questa direzione, e verso questi obiettivi, è compito anche della politica e dei nostri politici, che dovrebbero  trovare delle idonee soluzioni facilitative. In anni lontani, quando i temi dello sviluppo erano il pane quotidiano dei partiti, si sosteneva che per creare delle favorevoli opportunità di crescita, occorresse disporre di tre precondizioni essenziali e fra loro interconnesse: innanzitutto la volontà di promuovere i saperi e le disponibilità imprenditoriali, a seguire quella di poter ottenere dei capitali a credito a sostegno degli investimenti e, infine, il poter contare sul’’accettazione ed il consenso sociale. Condizione che allora la politica, con accortezza, realizzò. I risultati furono certamente positivi. Gianni Toniolo, illustre docente di economia a Ca’ Foscari, in un suo saggio, di quegli anni (1960-80) ha scritto: «L’economia sarda compì un grande grande balzo in avanti e le trasformazioni quantitative furono di dimensione molte volte superiore alle più rosee aspettative, ai sogni più audaci …A livello quantitativo ed aggregato, si trattò di un enorme successo che tutte le necessarie successive qualificazioni possono ridimensionare ma non annullare».

Oggi – si domanda – di quei tre ingredienti essenziali per favorire la crescita cosa è rimasto? E se non sono più disponibili, la politica cosa ne pensa? Sono domande che ci si pone e che si propongono perché su di esse (e non solo) si possa confrontarsi e discutere. Sardinia Post – caro direttore – è disponibile a favorire questo dibattito, in piena libertà di pensiero, senza preclusioni e senza limitazioni?

Paolo Fadda

Grazie dottor Fadda per questo suo intervento e per la domanda che lo conclude. La risposta è ovviamente sì. D’altra parte, in più occasioni abbiamo scritto che le pagine del nostro giornale sono aperte a chiunque voglia dire la sua. E, infatti, abbiamo ospitato numerosissimi interventi che esponevano le opinioni più diverse. Con una sola condizione: che fossero chiari, comprensibili a tutti, e non contenessero offese nei confronti degli avversari politici. O, comunque, di chi la pensa diversamente. Ma, è vero, il dibattito è molto al di sotto della gravità dei problemi. E la classe politica, fatte salvo poche eccezione, tende a evitarlo. Tanto che siamo giunti al paradosso di aprire un dibattito sull’assenza del dibattito. Non credo che saremo sommersi di interventi. Ma, come lei mi insegna, la goccia scava la pietra.  Noi andiamo avanti. (g.m.b.)

 

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