Mario Faticoni: “Zappareddu, un sardo europeo che guardava oltre il suo recinto”

Quello che segue è un bel ricordo del regista Pierfranco Zappareddu, scomparso domenica scorsa a Cagliari, scritto da Mario Faticoni per SardiniaPost. Attore e regista, Faticoni come fondatore del Teatro di Sardegna prima, nel 1968, e del Crogiuolo poi (1982), ma anche come giornalista e critico (Tuttoquotidiano, La Nuova Sardegna e la rivista “Spettacolo”), è stato protagonista e testimone degli ultimi quarant’anni di teatro in Sardegna. Due visioni diverse del teatro, la sua e quella di Zappareddu, che con il loro confronto, anche acceso, in quella Cagliari di inizio anni ’70, hanno arricchito la città e formato più di una generazione di spettatori e colleghi. Nel 2003 Faticoni ha raccolto le memorie di quegli anni ruggenti per la cultura sarda nel libro “Teatro contemporaneo in Sardegna” (AM&D edizioni).

Pierfranco, la sua morte.
La stampa l’ha onorata con ampiezza e profondità. La Nuova ha riprodotto anche una mia nota scritta a caldo, lodavo le buone idee d’oltremare fate attecchire da artisti come lui, davo spazio a un sogno: un’istituzione che si faccia avanti e dica “Ecco le chiavi del teatro, Maestro, ci dica di cos’altro ha bisogno”…

Lui è morto, ma da tempo siamo morti tutti, avviliti nel nostro aspirare a fare gli artisti. Ricordi, punti d’incontro e scontro. Negli anni tra il 69 e il 72, anni caldi, lo chiamavo “Seminatore d’odio”. A capo, con Corrado (Gai, NdR), di Teatro Sardegna, avevo individuato in lui, capo di Teatro Studio e derivati, il responsabile della contestazione al nostro “teatro di parola”, definizione rozza al pari dell’altra, “teatro gestuale”, bibbia degli zappareddiani.

Questi venivano a fine recita al Teatro Cantina di Castello per provocarci nel dibattito post spettacolo, e io e Gianni (Esposito, NdR) ci arrotolavamo le maniche… All’Auditorium, dopo un Brecht, tra applausi e baccano, con la mia faccina da schiaffi di allora li affrontai e mi salvarono i più calmi tra gli scalmanati. Nello stesso teatro, durante una replica di “Quelli dalle labbra bianche”, mentre morivo fulminato dal lanciafiamme, dalla balconata mi arrivò un “E crepa finalmente Faticoni!”
Poi improvvisamente scoppiava la pace ed eccoci tutti con il sacco a pelo nelle occupazioni.

Chiusa la fase dei galletti s’aprì quella dei professionisti. Anni in cui Su connottu aveva sistemato molte cose e Pierfranco era a Holstebro da Barba. La fase dell’ascolto, del rispetto, del riconoscimento.

Avevo anche il giornale come mezzo espressivo, La Nuova Sardegna e poi Tuttoquotidiano. Recensii alcuni spettacoli di quel terzo teatro, oggi rifluiti nel libro del mio giornalismo “Tumulti quotidiani”: “Cari deliziosi corvi” dell’Alkestis, “Le sillabe mute” del Teatro Immagine, un documento di lavoro di Domus de janas alla Casa dello studente, ma soprattutto “Min Fars Hus” dell’Odin, articoli recepiti nel Libro dell’Odin di Taviani.

Sintetizzo per onorare il ricordo di quel suo gioiello.
Due settimane dell’Odin in Sardegna. Barba è venuto nella regione più lontana dal dibattito culturale che il suo tipo di teatro sembra presupporre. Ed è andato, col suo eccezionale spettacolo, gratuitamente, presso i contadini e i pastori di San Sperate e Orgosolo. Non è da poco ospitare uno spettacolo di Barba, nell’occasione “Min Fars Hus”: una violenta, affascinante, indimenticabile provocazione sensoriale, una doccia vitalistica di rara potenza.
Con i loro gesti, suoni, espressioni del viso, questi attori ci rivelano in 55 spasmodici minuti ciò che non siamo più, ciò che non vogliamo essere. Tutto filtrato attraverso il tema del rapporto. Un rapporto sempre presente, dolcemente o violentemente estenuante, dal primo all’ultimo minuto, straziante, fatto di fulminei lampeggiare d’occhi o di carezzevoli intrecciarsi di mani.
Questi personaggi­fantasma perderebbero la bellissima­atroce verità trovata se cessassero di guardarsi, di toccars. Stupendo! Grazie Barba! Grazie “Odin”!
Da San Sperate ad Orgosolo. Qui Barba infrange il rito del numero chiuso di sessanta spettatori. Possono entrare tutti gratuitamente. Si crea affollamento, intemperanze fra i ragazzi, scherzi, imprecazioni. Vola qualche spintone, qualche pugno. Nella calca un poliziotto in borghese cade per terra. Un organizzatore riesce a sedare il conseguente corpo a corpo. La sera precedente, per timore di una scarsa affluenza era stato dato il bando. Per tutta la giornata i danesi a passeggio avevano destato una forte curiosità. In breve: si presenta alla scuola praticamente tutto il paese. Ma la mancanza di certi visti e altre difficoltà organizzative fanno piombare improvvisamente la polizia, camionette che sciabolano luce in un buio assoluto. La polizia va via ma la battaglia per entrare e la confusione riprendono. Probabilmente vittima dell’atmosfera incandescente, un pubblico funzionario pensa di porre termine alla confusione ricorrendo ad un gesto di forza. Per fortuna c’è chi fa un uso più meditato della propria autorità. E lo spettacolo che “presentarlo ai pastori era un’inciviltà” può avere inizio. Raccolgo i pareri di quelli che escono prima che finisca. Uscito per bisogni fisiologici, uno vorrebbe rientrare ma non gli è più permesso: “m’aspettavo dei canti, o una comica, invece è una cosa completamente nuova; non tutti possono capirlo, ma qualcosa ce l’ha; noi anziani siamo favoriti perché abbiamo maggiore esperienza”. Un altro, un vecchio “bigotto”: “Vado via perché non mi piace per niente”. Altri: “Era una messa nera”; “la storia di uno che voleva troppi soldi e di una donnaccia che poi incontra l’uomo giusto: certo anche la donna ha gli stessi diritti, purchè non si creda troppo!”; “non ci siamo annoiati, anche se non abbiamo capito”
La mattina, ci racconta Barba, c’era stata festa nel paese, frequenti inviti al bar, codazzo di ragazzini, giochi, canti, il proseguimento della festa teatrale di San Sperate, dove alla partenza gli attori non sapevano più dove mettere frutta, formaggi, vini… Spettacolo che non viene capito, ma affascina. Dopo Orgosolo lo spettacolo e il suo staff andranno in cantiere. Soltanto alcuni resteranno per preparare il prossimo spettacolo assieme ad altri elementi nuovi. E qui siamo alla notizia più sostanziosa, che soltanto qui in Sardegna, crediamo, è passata da “voce” a fatto concreto: il prossimo spettacolo dell’Odin si farà in Italia, nel Salento (Barba è nato a Lecce). Per cinque mesi, a partire dal prossimo maggio, il magistrale teatro di Barba succhierà quindi umori meridionali. Da questa notizia risulta ancora più chiaro il ruolo che la tournée sarda può aver giocato in quella che già si prefigura come una nuova fase artistica del giovane regista italiano: la conferma di un’intuizione, l’incoraggiamento a un teatro “più popolare”: uno spettacolo, affascinante anche se incomprensibile, per l’animazione culturale e civile di una piccola collettività. “Quello che ha impressionato soprattutto Barba”­ mi dice Ferdinando Taviani ­“è stato il cambiamento dei rapporti tra la gente e il gruppo a San Sperate, man mano che passavano i giorni”. Lo spettacolo è cioè diventato il momento in cui la gente vede in scena le stesse persone viste per strada e al bar e in campagna. “Festa teatrale”, nel suo significato più nobile.

Poi restò spazio solo per l’ammirazione: gli Incontri internazionali di teatro promossi dal suo Domus de Janas. Tra gli altri, la Carmen di Brook all’anfiteatro, straordinaria idea di una revisione del capolavoro a poche voci e in spazio raccolto, e la sacra Classe morta di Kantor , che vidi con occhi appannati: reduce da una tournée milanese, m’aspettava la raccomandata con richiesta di dimissioni da parte della Cooperativa, che avevo fondato e diretto per un quindicennio. E avevo accettato.

Amava tutto lo spettacolo, a modo suo penso fosse orgoglioso di quello che tutti noi facevamo per la sua terra, guardava oltre il proprio recinto sontuoso, forse sorrideva degli sforzi eroici del nascente teatro sardo, trovandoli talvolta ingenui, ma li rispettava. Seguiva gli altri. Ero tra quelli. Il picco, quando fondai un mensile sullo spettacolo e progettai la rassegna Pinter.

Arrivavano a sorpresa gradite le sue cartoline dalla Spagna.

Derivati dalla madre, aveva modi da signore. Un sardo europeo.

Mario Faticoni

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