Lo “sviluppo dal basso” per funzionare deve sapersi aprire al mondo. di ANTONIO SASSU

Da circa vent’anni la politica economica regionale ha cambiato verso. Dalla politica “dall’alto”, con la Cassa del Mezzogiorno e la legge 164, si è passati alla politica dello sviluppo locale, allo sviluppo “dal basso” (bottom up), con i diversi strumenti della programmazione negoziata (PIA, Patti Territoriali, Progetti Integrati, Pisu, Leader ecc.).  La teoria dello sviluppo locale ha attraversato varie fasi, ma sempre una cosa veniva enfatizzata: il ruolo del territorio considerato non più come spazio fisico bensì come entità di risorse, di saperi , soprattutto taciti, e come insieme di valori e di capitale sociale. Questa politica si è radicata nei luoghi poco sviluppati che ne hanno fatto oggetto di strategie economiche. E così è successo anche in Sardegna che riteneva attraverso questa strategia di aver trovato l’opportunità della crescita.

Come sappiamo, nonostante la retorica sullo sviluppo “dal basso”, per il nostro sistema economico regionale non c’è stato grande vantaggio. Cosa è mancato?

L’esperienza della programmazione negoziata, dal 1996 ad oggi, che tentava di mettere in pratica le teorie dello sviluppo locale, può darci alcune indicazioni. Sono cambiati di volta in volta i vari strumenti e i nomi dei modelli di sviluppo (dai piani integrati d’area ai patti territoriali, fino ai patti verdi ), ma la strategia è rimasta sostanzialmente identica anche al variare dei governi regionali. Così non deve stupire se si sono avuti sempre risultati sostanzialmente poco positivi.

I documenti ufficiali della nostra programmazione negoziata ci permettono di leggere, talvolta espressamente, talaltra implicitamente, alcuni limiti e vincoli della regione.

Innanzitutto, scarsa progettualità. I progetti selezionati e approvati (spesso non esecutivi e non cantierabili), sono solitamente tradizionali, ripetitivi e mai corredati da una analisi di mercato. Tanto meno hanno un respiro internazionale. La domanda di mercato non si crea senza un bisogno o almeno un desiderio.

I progetti non sono quasi mai innovativi, qualche volta sono stati bocciati in precedenti bandi e ripresentati fino a quando il politico di turno non riesce a farseli finanziare. Non c’è alcun collegamento tra istituzioni e, normalmente, non c’è efficienza da parte della pubblica amministrazione a giudicare dai ritardi nei pagamenti e dalla scarsa assistenza ai singoli progetti a cui si rinuncia. Di frequente manca la collaborazione fra pubblica amministrazione e imprenditori. Non esistono reti fra imprese e i servizi a favore dei cittadini sono molto carenti. Non si vedono competenze sulla gestione di un’impresa che deve stare nel mercato.

Cosa bisognerebbe fare? Alcune indicazioni, a nostro parere, sono prioritarie: la programmazione sul territorio, a cui non bisogna rinunciare, è efficiente e inclusiva quando ci sono alcune condizioni. Sviluppo locale si, ma, oggi, con la globalizzazione e con i mercati totalmente aperti, questo non può essere solo endogeno. Si richiede di imparare da chi ne sa più di noi, ovunque egli sia, e una flessibilità a valutare con competenza ciò che viene dall’esterno. Ne deriva che lo sviluppo del territorio deve comportare conoscenze, attrattività e fattori di esogeneità. Più precisamente:

Le conoscenze, le idee e le capacità possono ben essere esogene quando sono più avanzate e migliori delle nostre, cosa che avviene spesso. Pur rimanendo all’interno delle nostre specializzazioni (ma non necessariamente) c’è la possibilità di imparare nuove tecniche che possono essere applicate alle produzioni, di creare nuovi settori e fare passi in avanti lungo la strada del progresso tecnico.

– Il sentiero tracciato dall’esperienza, o path dependency, è importante perché ci aiuta a capire chi siamo e il cammino percorso. Tuttavia esso ci può tenere nella trappola della povertà e del sottosviluppo. In tali casi è utile rompere la path dependency e acquisire qualcosa al di fuori del tracciato noto. Mai rinunciare ad una modifica della situazione in cui ci troviamo cosicchè i territori possano imboccare una nuova via di sviluppo.

– Gli amministratori locali possono avere vantaggi a mantenere lo status quo e a gestire l’attuale routine. La rottura dell’equilibrio si può ottenere, talvolta in modo poco pacifico, con uno sguardo all’esterno che può suggerire un nuovo modo di agire.

 Imparare dagli altri a creare un buon capitale imprenditoriale e progettuale, evitando, per quanto è possibile, contributi e sussidi che spesso consentono la sussistenza ma impediscono l’emergere di chi è capace e vuole il progresso.

La programmazione negoziata, basata sempre sulla partnership e sull’identità territoriale, ci insegna che l’ente pubblico ha avuto grandi responsabilità nei due decenni passati, ma che, se accorto e competente, può fare molto per creare condizioni favorevoli e modificare la storia.

Antonio Sassu

(docente di Politica economica europea all’università di Cagliari)

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