L’analisi. Stragi di migranti, interessi economici e lotte intestine dietro l’esodo

Ottocento migranti morti nel tentativo di raggiungere la penisola italiana lo scorso 19 aprile, 2.500 le vittime dall’inizio dell’anno; 200.000 sono invece le persone che nel 2014 hanno raggiunto le sponde del continente europeo secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. Numeri impressionanti, certo, che tuttavia non rappresentano altro che la punta dell’iceberg, scrive Helena Pes, cooperante cagliaritana laureata in Cooperazione internazionale all’Università di Bologna curatrice del blog Occhi a Sud che ha trascorso 6 anni tra Kenya e Namibia. A lei abbiamo chiesto uno spaccato dei conflitti, soprattutto di quelli meno conosciuti, che attraversano l’Africa.

Il drammatico esodo dei migranti africani che ripetutamente s’impone agli occhi degli spettatori occidentali non è che la punta dell’iceberg di un fenomeno complesso. Affinché le morti di chi sfida il Mediterraneo in condizioni disperate non rimangano impresse unicamente nella memoria visiva di chi assiste allo spettacolo dell’orrore, occorre allora identificare le cause di questi poderosi flussi migratori, partendo da una verità di fondo: in Africa le politiche di rapina dei governi occidentali e delle grandi multinazionali non si sono mai fermate. E spesso – troppo spesso- lo sfruttamento delle risorse naturali, come l’uranio nel Niger o il petrolio in Nigeria, finiscono per acuire conflitti preesistenti su cui s’innesta il fondamentalismo religioso. Gli altri attori sulla scena del delitto sono gli stessi governi dei paesi africani, che costruiscono posizioni di potere attraverso una dilagante corruzione e perseguono i propri interessi economici col ricorso ad unità paramilitari che si macchiano di sistematiche violazioni dei diritti umani, come avviene in Kenya. Naturale che in una situazione del genere si riaccendono anche i dissapori tribali. I risultati finali di questo groviglio di tensioni sono un deterioramento delle condizioni di sicurezza in tutta la regione nord-africana e in gran parte dell’Africa Sub-Sahariana e la crescita esponenziale del numero di richiedenti asilo parallelamente ad una notevole riduzione della capacità di accesso all’asilo politico negli stessi paesi africani. A questo punto, quando i conflitti di matrice squisitamente economica assumono un carattere di radicalizzazione etnico-religiosa in una sorta di deriva medio-orientale di gran parte dell’Africa, ai migranti non resta che attraversare il mare.

Tra i conflitti africani più ignorati dalla stampa internazionale spicca senz’altro quello l’ex colonia francese della Repubblica Centrafricana, un paese che dal 1960, anno in cui ottenne l’indipendenza, non ha mai conosciuto pace. Nessuno ne parla, ma in questo paese il conflitto ha già prodotto quasi 300mila esuli nel lasso di tempo che va 2012 al 2014. Il paese è un grande produttore di diamanti ma la sua popolazione dipende quasi esclusivamente dall’agricoltura e dall’allevamento di bestiame. È proprio sull’accesso alla terra, che viene loro espropriata, che continuano a scontrarsi incessantemente i fedeli alle ex milizie Seleka, principalmente allevatori, e gli Anti-Balaka, agricoltori. A questo conflitto si sovrappone il carattere di radicalismo religioso sempre più accentuato: nel 2014 Amnesty International denunciava diversi massacri compiuti dagli Anti-Balaka cristiani ai danni di civili musulmani.

A ben poco è poi valso il raggiungimento dell’indipendenza del vicino Sud Sudan, paese ricco di petrolio, ma tra le economie formali meno“sviluppate d’Africa, nato a seguito di un referendum popolare che con maggioranza schiacciante ha votato la separazione con il Sudan appena nel 2011 ed in seguito piombato nella guerra civile che si aggiunge ai già difficili rapporti con l’ingerente vicino del nord, il Sudan, in un difficile divorzio consumato intorno alle ingenti risorse petrolifere del Sud. Secondo l’International Crisis Group, un maggiore coordinamento delle varie forze internazionali presenti nella regione, in primis Stati Uniti e Cina, giocherebbe un ruolo di stabilizzazione del conflitto.

Le tensioni latenti causate dall’arretratezza risultante dalle politiche di rapina e dal conseguente sfruttamento delle risorse naturali si accendono assieme ad un dilagare incontrollabile di istanze estremiste in una scintilla letale in Nigeria, Cameroon, Niger e Chad. Qui l’insorgenza del gruppo islamista di Boko Haram, che coinvolge i quattro paesi, ha causato nel solo 2014 oltre 10mila morti.

L’insorgenza dei gruppi di ribelli che da tempo scuote tutto il Sahel, zona di transizione geografica tra il deserto del Nord-Africa e le savane dell’Africa Sub-Sahariana, non poteva che allarmare paesi come la Francia, ancora in gran parte dipendente dall’energia nucleare e che ha fatto di tutto per evitare l’espansione di gruppi jihadisti nel Niger, il quarto paese produttore di uranio al mondo.

Non si può poi non accennare al colossale fallimento dell’operazione Serval lanciata dalla Francia allo scopo di espellere i militanti jihadisti dal nord del Mali, dichiarata conclusasi come un “successo” in luglio 2014, nonostante il paese resti ad oggi tutt’altro che un luogo pacifico: a marzo 2015, la principale coalizione di ribelli Tuareg, il CMA, ha rifiutato di firmare il trattato di pace con il governo maliano mentre imperversano gli episodi di violenza di stampo terroristico a Bamako e nel nord del Mali. Mentre il conflitto sprofondava nuovamente nel silenzio mediatico, un’altra operazione, Operation Barkhane, è stata rilanciata nell’agosto 2014, evidentemente sulla scia del grande “successo” della prima.

Altro fenomeno assai preoccupante è l’estensione di un altro grande conflitto “cronico” d’Africa, quello che da oltre due decadi imperversa nella Somalia in balia dei Signori della Guerra prima e degli Al Shabaab di matrice Qaedista poi, al vicino Kenya, un tempo considerato come un porto sicuro per gli esuli in fuga dei suoi travagliati vicini settentrionali del Corno d’Africa e del Sudan. Nonostante l’attenzione mediatica, rivolta fugacemente a questo paese solo in occasione dei due più eclatanti attacchi terroristici, (quello al centro commerciale di Westagate, nel cuore della Nairobi benestante in settembre 2013 e il più recente massacro di studenti di diverse etnie a Garissa, principale centro per i somali-keniani del remoto nord-est,) il Kenya è a tutti gli effetti un paese in conflitto. Almeno dal 2011, anno in cui le truppe keniane in un eccesso di “zelo” varcarono i confini della vicina Somalia utilizzando il pretesto del rapimento di alcuni turisti occidentali da parte degli Shabaab allo scopo di stabilire una sorta di zona “cuscinetto” finalizzata alla realizzazione dei mastodontici piani di “sviluppo” economico ed infrastrutturale nell’ambito di un accordo interregionale fortemente voluto dall’Etiopia e con il supporto delle potenze occidentali, che prevede tra varie opere la realizzazione di un oleodotto con sbocco sul mare per l’estrazione e l’esportazione del petrolio proveniente dall’intera regione. L’ incursione militare da parte del governo del Kenya può definirsi, nel migliore dei casi, come assolutamente avventata, essendo questo un paese caratterizzato da profonde tensioni sociali interne e dominato da una politica di stampo tribale le cui fragili dinamiche si intrecciano con l’annosa ed irrisolta questione della terra. Forse questo paese è più di tutti indicativo di un fenomeno molto inquietante in cui conflitti di matrice squisitamente economica assumono un carattere di radicalizzazione religiosa in una sorta di deriva medio-orientale dell’Africa Sub-Sahariana. Per la prima volta nella storia del paese infatti, il sospetto che corre sulle linee del tribalismo scuote comunità di fede diversa che hanno sempre convissuto in pace per secoli e mentre l’odio della popolazione urbana si scaglia contro residenti somali-keniani innocenti, il governo ha intrapreso un’altra strada assai pericolosa, con la decisione di chiudere i campi profughi che attualmente ospitano centinaia di migliaia di rifugiati somali a rischio.

Mentre il Kenya si affanna a costruire un muro al confine nord-orientale con la Somalia che fa buchi da tutte le parti, anche in questo caso la risposta della comunità internazionale alla strage di Garissa è indicativa: l’episodio è stato utilizzato ancora una volta per invocare l’incremento delle risorse da spendere nella lotta al terrorismo a livello globale, risorse che nel caso specifico del Kenya, andranno a finanziare le stesse unità paramilitari che nell’impunità totale si rendono responsabili di sistematiche violazioni dei diritti umani ai danni di comuni cittadini keniani su base etnica, lasciando ai giovani delle comunità più povere e remote l’ardua scelta tra la persecuzione e la radicalizzazione.

Possiamo dunque solo immaginare quanto sia l’Europa che l’Africa avrebbero da guadagnare se al militarismo e alla fallace cooperazione di polizia anti-terrore si sostituissero maggiori fondi per una cooperazione reale, che metta in grado i popoli di svilupparsi nella propria terra d’origine.

Helena Pes

Diventa anche tu sostenitore di SardiniaPost.it

Care lettrici e cari lettori,
Sardinia Post è sempre stato un giornale gratuito. E lo sarà anche in futuro. Non smetteremo di raccontare quello che gli altri non dicono e non scrivono. E lo faremo sempre sette giorni su sette, nella maniera più accurata possibile. Oggi più che mai il vostro supporto è prezioso per garantire un giornalismo di qualità, di inchiesta e di denuncia. Un giornalismo libero da censure.

Per ricevere gli aggiornamenti di Sardiniapost nella tua casella di posta inserisci la tua e-mail nel box qui sotto:

Related Posts
Total
0
Share