La Sardegna dei nuovi indifferenti, che ha dimenticato la lezione di Gramsci

Se c’è una regione del nostro Paese a non essere riuscita ad uscire dalla crisi ed a ritrovare la strada dello sviluppo economico, questa pare essere la Sardegna. Infatti, al di là dei dati che avvalorerebbero questa condizione di precaria immobilità o di prolungato ristagno, quel che preoccupa di più è l’assenza di proponimenti e di indicazioni sul come doverne uscire e sul dove dirigersi: cioè quale debba o possa essere l’assetto socio-economico su cui poter puntare per il futuro prossimo venturo.

Stupisce ancor più, e rende assai più preoccupati, è il dover rilevare che di questi problemi non se ne discuta pubblicamente e chiaramente, ad iniziare da quanti dovrebbero farlo per dovere istituzionale, oltre che sociale: perché tra i politici, innanzitutto, ed a seguire tra gli intellettuali, gli accademici, gli esponenti del lavoro e delle imprese e tra quanti hanno a cuore i destini di questa nostra Sardegna, pare prevalere l’apatia e l’indifferenza. Dimenticando colpevolmente quel forte anatema che il nostro Gramsci aveva lanciato contro gli indifferenti: perché – scriveva – l’indifferenza è vigliaccheria, ed equivale ad un abbandonarsi stupidamente alle fatalità del destino, abdicando così ad esercitare le proprie volontà, i propri saperi e le proprie capacità. Ed è colpa ancor più grave se commessa, come questa, nei confronti della propria terra e della propria gente.

C’è dunque l’esigenza, e l’urgenza, di lanciare un appello perché si esca fuori dall’apatia e dall’indolenza, perché si torni “a desiderare” il rinascimento dell’isola, proponendo idee e interventi che ci facciano ritrovare il senso di marcia in avanti. Rattrista infatti, e soprattutto preoccupa il fatto che ormai ci divida un grave ritardo rispetto all’altra Italia, tanto da essere ormai inseriti tra i fanalini di coda delle regioni del Sud.

Si è quindi di fronte nuovamente ad una “questione sarda” (metafora letteraria per indicare la condizione di arretratezza economica), che pare ancor più grave di quella affrontata un secolo fa. Con una forte differenza, purtroppo in negativo: se allora le élite intellettuali e politiche dell’isola furono capaci di animare accesi dibattiti e aspri confronti su cosa fare e come agire per ricuperare i ritardi nello sviluppo, oggi infatti si avverte un silenzio assordante da parte delle élite d’ogni categoria sociale, segno non certo secondario di quell’impietoso appannamento culturale ed identitario che ha colpito le nostre classi dirigenti. In più, da diversi segnali si avverte che anche le nostre intelligenze più illuminate (che certamente vi sono) avrebbero scelto l’eremitaggio come difesa/distacco dal silente conformismo degli establishment ufficiali.

Ora, per chi abbia a cuore il futuro della sua madre terra, questi prolungati silenzi e questo incombente disinteresse nei confronti dell’economia vengono vissuti con profonda sofferenza ed anche con evidente preoccupazione. Proprio perché il vecchio motto che cementava l’unità dei sardi – fortza paris – pare sostituito da una pericolosa scomposizione/parcellizzazione, per cui ognuno, come si suole dire, cerca di tirare l’acqua al proprio mulino (e d’acqua ce ne è molto poca). Con il risultato, assai perverso, che la “questione sarda” è divenuta una molteplicità infinita di “questioni”, quanti sono gli innumerevoli campanili dell’Isola. A cui andrebbero aggiunte le divisioni settoriali e corporative, sempre impostate in maniera radicale: da quella, storica, tra pastori ed industriali per il prezzo del latte, a quella, più attuale, tra industrialisti ed ambientalisti o tra energie rinnovabili e prodotti energetici. Con il risultato evidente d’un allontanamento sempre più marcato da una fuoruscita dalla crisi e dal declino.

A queste anomalie avrebbe dato comunque una grossa mano la disunità fisiologica delle forze politiche (sia di governo che di opposizione) che paiono aver sostituto anch’esse le storiche differenze ideologiche con quelle, assai meno nobili ed aggravate anche da parcellizzazioni interne, degli interessi elettorali e clientelari. Mostrando così l’incapacità nel ricercare e trovare un denominatore comune e condiviso per attuare gli interventi necessari e possibili, atti a farci riprendere il cammino verso lo sviluppo.

Non vi è dubbio alcuno, quindi, che la Sardegna abbia fatto dei vistosi passi indietro in quest’ultimo quarto di secolo, e li abbia fatti per le proprie fragilità strutturali certamente, ma anche per l’indifferenza mostrata dalle sue classe dirigenti (dai politici agli imprenditori, dagli accademici ai dirigenti sindacali) di studiare ed attuare rimedi per ovviare al declino.

Occorrerebbe partire dall’analisi del PIL regionale per comprendere come dei radicali correttivi debbano essere introdotti, e con urgenza. Il nostro prodotto interno infatti evidenzia, negli insufficienti valori delle attività produttive (industria e agricoltura in primis), tutte le anomalie (promotrici dei guai dell’inoccupazione e delle povertà) di un’economia che soffre di un alto tasso di dipendenza dall’esterno (nell’ultimo mezzo secolo questo tasso, secondo diversi studi, s’è quasi raddoppiato). Ed è una dipendenza non solo misurabile, ahinoi!, sulla bilancia commerciale ma che interessa, e non poco, quella dei trasferimenti finanziari dall’esterno.

Per attenuare quel peso non lieve della dipendenza e per ridare competitività al sistema produttivo (e per uscir fuori da quel circuito dell’indifferenza e dell’ignavia) occorrerebbe avviare degli studi e dei confronti per predisporre un programma basato su alcune prioritarie direttrici di sviluppo interconnesse fra di loro. Individuando così i punti d’attacco (quelli che la Svimez ha chiamato drivers, cioè dei motori di traino) per ordinare una strategia per una politica attiva dello sviluppo possibile. Partendo, magari, dalla predisposizione prioritaria di una strumentazione pubblica regionale, che sia efficiente ed efficace per promuovere e favorire dei nuovi investimenti produttivi (oggi del tutto inesistenti, come rilevato da Bankitalia), e questo sia migliorando la dotazione di infrastrutture fisiche, logistiche ed energetiche, oltre che consentendo dei rapidi e meno defatiganti accessi agli interventi di sostegno messi in campo dalle legislazioni vigenti.

Chiamare a raccolta idee e proposte, animare dei confronti e dei dibattiti su come sconfiggere il declino può e deve essere il rimedio per non essere sopraffatti da quel cancro sociale chiamato indifferenza. Perché “autonomia” o “sovranismo” (due letture oggi concorrenti per l’autogoverno dei sardi) potranno avere una loro effettiva e positiva valenza solo ed esclusivamente se a quei due sostantivi si potrà aggiungere l’aggettivo economica/o.

Paolo Fadda

Economista, saggista, già amministratore del Banco di Sardegna

 

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