Una rivolta delle intelligenze contro la disonestà diffusa

La misura della disonestà non è mai colma, a quanto pare. Da settimane, mesi, anni, vengono alla luce le cifre pazzesche delle risorse sottratte in mille modi ai cittadini da una minoranza avida e arrogante di affaristi e prenditori di varia specie, politicanti, presunti manager, finti esperti, servi e gregari più o meno scaltri, che si riproducono impunemente, in piena libertà (invece che in cattività, come preferiremmo, cioè dietro le sbarre o in un campo da spietrare). Bisogna rendersi conto che i disonesti non vanno in galera – quasi nessuno – perché la disonestà non è di per sé un reato. E’ una sciagura, una calamità, una malattia sociale invalidante.

Ci sono mille modi di essere disonesti, molti dei quali non si configurano come un reato e non sono perseguibili. Eppure sono i casi più diffusi e più dannosi. E’ come l’evasione fiscale: le grandi frodi sono un numero limitato e in parte vengono scoperte, mentre le piccole evasioni quotidiane, ordinarie, sono un’infinità e restano nell’ombra. Allo stesso modo, le grandi truffe prima o poi vengono alla luce, ma i piccoli imbrogli e raggiri della vita di ogni giorno sono inesauribili e invisibili. Le prime producono un danno economico rilevante, ma i secondi ne producono uno sociale incalcolabile, perché creano assuefazione alla disonestà.

E’ vero che non è facile definire i confini di questo morbo, però è sorprendente che si tenda a darne una definizione restrittiva: il disonesto è chi ruba molto. Chi ruba poco è già fuori dalla categoria, salvato da una minore avidità o scaltrezza. Ma ci sono tanti modi di rubare e tante cose che possono essere rubate. Sono tanti i trucchi per accaparrarsi, accumulare, distribuire a proprio piacere e interesse, dissipare, risorse pubbliche e private di vario genere, materiali e immateriali. Chi ruba la fiducia dei cittadini attraverso promesse elettorali ingannevoli, per esempio, è meno disonesto di chi sottrae denaro pubblico? Chi approva leggi che consentono di danneggiare un bene collettivo come l’ambiente o la scuola, è meno disonesto di chi usa il denaro pubblico per andare al ristorante? La risposta non può essere assolutoria: sono tutti disonesti.

E’ la logica della appropriazione indebita, a prescindere dal reato che configura, a descrivere bene il comportamento disonesto di una parte ben radicata della classe politica e dirigente del Paese e della Regione. Appropriarsi indebitamente, cioè senza averne il diritto, di qualche risorsa che è di tutti è una pratica talmente diffusa e silente da avere indebolito le antenne sociali che potrebbero rilevarla. Per questo non ci scandalizziamo più quando uomini con credenziali modeste – se non del tutto assenti – ma robuste protezioni politiche ottengono incarichi pubblici che non sono in grado di svolgere, e ricevono in cambio una retribuzione di gran lunga superiore rispetto a chi occupa ruoli analoghi, e perfino rispetto a chi ha un’occupazione con responsabilità più alte. In questi casi non si tratta di incapaci, si tratta di ladri. I ladri occupano poltrone comode con una retribuzione smisurata rispetto alle loro capacità, producendo i danni aggiuntivi che derivano dalla loro incompetenza e dal loro asservimento al potere che li ha nominati.

Siamo pieni di questa specifica forma di disonestà, la più dannosa e la più impunita, perfino legittimata dal cosiddetto spoil system (termine inglese che letteralmente significa “sistema del bottino”), che descrive la pratica con cui le forze politiche vincenti distribuiscono a propri affiliati e simpatizzanti cariche istituzionali, la titolarità di uffici pubblici e posizioni di potere, come incentivo ad operare in favore del partito o della parte politica di riferimento, ma anche come compenso per la fedeltà mostrata e il sostegno ricevuto. Ci siamo abituati a considerare normale o comunque accettabile che la politica tratti le istituzioni come un bottino, da spartire con i fedelissimi, capaci o incapaci che siano, onesti o disonesti.

Da tutta questa disonestà non ci può salvare la giustizia, ma solo l’educazione e l’intelligenza, e una insopprimibile aspirazione a vivere in una società più civile.

Lilli Pruna

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