Il disastro del Pd sardo e il futuro della giunta Pigliaru

La sconfitta è così chiara e così netta che l’argomento consolatorio secondo cui si è trattato di “elezioni cittadine” non è praticabile. Il Partito democratico – cioè il partito che governa la Regione – ha perso ovunque. Ha perso nella storica “roccaforte rossa” di Carbonia contro il Movimento 5 stelle, ha perso a Olbia contro quel che restava del centrodestra. Ha perso a Monserrato, dove pure si era arrivati a una ricomposizione del centrosinistra, e ha perso a Sinnai contro un’alleanza di sinistra. Un risultato che certo non cancella il successo di Massimo Zedda (che però, va ricordato, è un esponente di Sel) ma fotografa una crisi strutturale di consensi. Il Pd ha perso in realtà diverse, contro avversari diversi. Quelli vecchi e quelli nuovi.

Per la prima forza della giunta regionale – ormai vicina a compiere metà legislatura – c’è più di una ragione per riflettere. Perché le cause di questa sconfitta sono così tante e sono così evidenti che la difficoltà principale non è individuarle, ma “metterle in ordine”. La condanna di Renato Soru, seguita dalle immediate dimissioni dal ruolo di segretario, ha solo accelerato l’epilogo di un conflitto correntizio che si trascina da anni. In un estenuante esercizio di politique politicienne che ha prodotto un solo risultato visibile e a tutti evidente: il mancato rinnovamento del gruppo dirigente.

Le vicende del Pd, e in generale del centrosinistra, sono per larga parte dell’opinione pubblica incomprensibili. Anche nell’eterno dibattito sul “rimpasto” della giunta regionale è difficile individuare le ragioni di merito, mentre sono chiarissime – a chi ha la voglia e la pazienza di ricostruirle – quelle determinate dalle ambizioni correntizie. Fin dall’inizio della legislatura, il Pd e il centrosinistra hanno agito come se la vittoria alle Regionali del 2014 non fosse anche (e forse prevalentemente) il frutto di una serie di combinazioni fortunate (le liste di disturbo presentate da Mauro Pili) unite a una legge elettorale costruita appositamente per uccidere nella culla il tentativo di Michela Murgia e del suo Sardegna Possibile. Oltre che dalla credibilità personale di un uomo, Francesco Pigliaru, estraneo alle logiche dell’apparato.

Quel risultato, che doveva essere un punto di partenza, è stato trattato come un punto di arrivo. Le porte del Palazzo della politica anziché aprirsi si sono chiuse. E i tentativi di comunicare un vero cambiamento sono stati spesso offuscati da episodi opachi, come le nomine di dirigenti scelti evidentemente sulla base di criteri di fedeltà, ancorché imputati. Vicende segnalate sistematicamente da questa testata e rimaste senza alcuna risposta.

Un anno fa, dopo l’ennesimo assordante silenzio, avanzammo l’ipotesi che l’evidente imbarazzo della giunta regionale fosse determinato dalla difficoltà ad ammettere, appunto, che per salvaguardare gli equilibri politici, ogni tanto può capitare di dover fare scelte che non si condividono. Perché non piegarsi a una mediazione, anche molto al ribasso, anche opaca, in alcuni casi può produrre un danno superiore al vantaggio di fare bella figura adottando un comportamento totalmente trasparente.

“Ma il punto – scrivevamo all’epoca – è proprio questo: la valutazione del danno. Che dovrebbe essere fatta dal centrosinistra sardo tenendo conto di alcuni dati di fatto. Il primo è che le elezioni sono state vinte per il rotto della cuffia e per una combinazione di circostanze fortunate: la presenza di una lista che ha tolto voti al centrodestra e l’assenza del Movimento 5 Stelle. Che, immaginiamo, oggi stia festeggiando la nomina del dirigente-imputato perché dà un nuovo formidabile argomento alle tesi secondo la quale “sono tutti uguali”.

Ecco, a quanto pare la festa è andata avanti. In questo momento è in pieno svolgimento a Carbonia, Olbia, Sinnai e Monserrato. E nel 2019, dopo le prossime Regionali, dove proseguirà?

G.M.B.

(Foto Roberto Pili)

 

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