Giovani sardi, non arrendetevi. Fate come noi, i figli della guerra

Uno scambio di sms di pochi mesi fa. Andrea Falqui,  fisico cagliaritano espatriato in Arabia saudita per lavoro, esprime a Giorgio Melis il suo disgusto per la situazione dell’Italia, un Paese ormai perduto, “irredimibile”, scrive. Un Paese da cui non resta che andarsene per salvare la propria dignità e la propria professionalità. Giorgio comprende, ma non è d’accordo. Non condivide lo sconforto. E’ del parere che non ci si debba arrendere. E ne spiega e ragioni con una mail che parte da un ricordo dell’infanzia. Quando, bambino di 5 anni, vide Cagliari ferita dalla guerra. Ringraziamo Andrea Falqui per averci inviato questo straordinario testo.

Avevo neanche 5 anni quando con mia madre preoccupatissima stringendomi la mano, scendemmo dal treno a S. Paolo perché la stazione era semidistrutta dai bombardamenti. Poi la lunga camminata per strade di cui avrei  saputo il nome anni dopo. Lunga marcia per strade in pianura. Stanco ma eccitato. Poi una salita, un budello aperto tra due trincee di macerie, terriccio e polvere in silenzio assoluto in quella giornata spettrale nella primavera del 1944. Quella salita tra le macerie sotto palazzi e case diroccate, lo seppi dopo, era via Manno. In cima in piazzetta, scendendo un grande bar: era il Genovesi e negli anni successivi ne sbranavo le paste, tutte, ma il ricordo profuma dello zucchero a velo e dell’alchermes che mi colava sul mento mentre addentavo le americane.

Con mamma scendemmo ancora, via Garibaldi e poi via S. Lucifero, un vicolo che si allargava a vera strada dopo aver attraversato via Eleonora d’Arborea prima di sboccare in via Sidney Sonnino, di fronte al Parco delle Rimembranze, poi riprogettato da tuo nonno Badas. Quindi il momento più atteso. L’abbraccio col mio papà rientrato mesi prima da Uras per rimettersi al lavoro tutto nuovo di panificatore, dopo essere scappato per ultimo da Cagliari sotto le bombe del febbraio ’43 e rientrandovi  lasciando mezza famiglia nel paese in cui era sfollato con otto dei dieci figli.

Sognavo il momento di entrare nel panificio per addentare una sognata pagnotta fragrante appena levata dall’enorme forno a legna. Papà era e resta l’uomo più importante della mia vita: mi aveva generato a oltre 50 anni, non sapevo che si era fatto due anni di leva ordinaria, la metà nella Messina rasa al suolo nel 1907 da terremoto e tsunami (allora si chiamava maremoto) con centomila morti, e poi tre anni di prima guerra mondiale tra Asiago e Gorizia in prima linea, guidando camion carichi di bombe e munizioni su e giù per mulattiere appena più larghe del camion.

Ho fatto il dottor Divago, ma quando richiamo mio padre non posso non bloccarmi un poco incantato. Torniamo al forno e alla pagnotta che mi scottava le mani. Riuscii a buttarne giù due bocconi ma ero già sazio. Dalle grandi gerle piene di pane profumato come un sogno da morto di fame. Nei giorni successivi, il bambino impacciato e timoroso cominciò a girovagare, allargando via via le missioni esplorative fin piazza Garibaldi, Villanova, il porto pieno di relitti affondati, via Roma mezzo sventrata dove gli occupanti americani fecero una memorabile sfilata della vittoria dopo la resa del Giappone grazie alle bombe di Hiroshima e Nagasaki.

Quelle esplorazioni con gli occhi spalancati e inquieti (molti ricordi sono spesso solo visivi, rielaborati con gli anni e la ragione degli anni successivi), avevano un segno incancellabile. Il silenzio angoscioso della città popolata da poche migliaia di persone e dunque deserta, il mare di macerie ovunque, i palazzi e le case diroccate, un panorama di morte irredimibile, capivo anch’io che una resurrezione era impossibile. Poi tornando al panificio (sarei presto diventato “su filli de su forru”) vedevo la ventina di panettieri al lavoro, centinaia di persone che arrivavano anche da S. Avendrace a comprare il pane buonissimo con le tessere da cui si ritagliavano le cedole da consegnare in prefettura per avere i rifornimenti di farina: quella del pane nero considerato inferiore quella candida, di farina di granturco arrivata dagli Usa con le navi Liberty che avevano, a migliaia, garantito l’oceano di rifornimenti che salvò dalla fame l’Europa distrutta: era bianchissima, ma quando arrivava lo scirocco i pani diventavano elastici come un grandissimo chewingum, per noi le fantastiche cingomme.

Quell’immagine di lavoro, attività frenetiche, il sorriso delle persone che si caricavano grandi borse di un pane non amaro e messaggero concreto e insieme simbolico di vita, faceva rinascere la speranza e faceva virare l’umore cupo in pacato ottimismo. La Cagliari delle macerie e mortifera seppe risorge ricostruendosi quasi da sola: quando lo Stato non c’era più e la Regione non ancora.

Quando si è vista questa marcia all’inferno e ritorno, benché disperati e preda di un pessimismo cosmico (non ho ancora visto Il giovane favoloso: per Luigi Pintor, Leopardi e Gramsci erano il gobbo di Recanati e quello di Ghilarza) non si riesce a convincersi che speranza l’e’ morta e bisogna rassegnarsi e arrendersi al peggio. Ecco, per quelli del ’43, la resa è impensabile, si continua a credere che un mondo e un’Italia è possibile: spes contra spem. E tu e quelli come te, possono mollare impunemente, calare le brache, essere da meno dei bambini poi ragazzi, adulti giunti alla dura terza età, insomma inferiori a quelli del primo dopoguerra terribile e spaventoso? Non ci voglio credere.

Giorgio

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