Gigi Riva, l’uomo che è quello che non riusciamo a essere

Sì, la parola può apparire troppo grossa. Ma davvero c’è qualcosa di soprannaturale nella popolarità di Gigi Riva in Sardegna e a Cagliari in particolare. Qualcosa che né lo straordinario curriculum sportivo, né gli straordinari gesti d’amore verso di noi che punteggiano la sua vita, bastano a spiegare. Perché è una popolarità che non è alimentata solo dalla storia dell’uomo, ma dall’uomo in sé: dal suo modo di essere, dal suo tratto sempre discreto, quasi timido, a volte in apparenza triste.

Chi bazzica la zona di Cagliari compresa tra Piazza San Benedetto e Piazza Garibaldi ha frequenti occasioni di incrociare il Mito. Vede un signore dai capelli grigi, dal fisico ancora vigoroso e imponente. Quasi sempre assorto nei suoi pensieri. Ma pronto a rispondere a ogni saluto. E ne riceve in continuazione. Come un tempo doveva capitare ai nobili quando scendevano a far due passi nel contado.

Si ha l’impressione che non percepisca la stima, al limite della venerazione, che lo circonda. Che la consideri una componente dell’aria che ha sempre respirato. Ma non per alterigia, semplicemente perché c’è qualcosa di più importante. C’è sempre stato qualcosa di più importante. Niente di straordinario, attenzione. Le cose della vita di tutti giorni: il luogo in cui vivi, il fatto di starci bene, gli affetti, gli amici, le superstrade poco trafficate, gli amori, il caffè da Marabotto.

Noi sardi come tutti gli isolani viviamo l’ansia d’essere riconosciuti. Probabilmente perché siamo pochi e infatti, molto spesso, a forza di incrociarsi, le nostre relazioni fanno cortocircuito e nascono delle faide. Così ci fa piacere ricevere, dall’esterno, dai continentali, segni di apprezzamento. Con tutta probabilità il nostro famoso, e a volte asfissiante, “senso dell’ospitalità” deriva da questa insicurezza che mascheriamo assecondando cliché che ci dipingono molto diversi. Non è un caso che la descrizione del nostro “carattere nazionale” sia punteggiata di avversative: diffidenti ma leali, riservati ma generosi, chiusi ma capaci di morire per un amico. Balle, evidentemente, come tutti gli stereotipi.

Ma che importa. L’Isola è assieme una prigione e un rifugio. E’ una causa di giustificazione. Ci portiamo appresso anche con un certo compiacimento questa zavorra di cliché e nei momenti più solenni, o quando siamo particolarmente incazzati, la gettiamo a terra facendoli rotolare senza vergogna. A volte gridiamo: “Parola di sardo!”. Altro volte: “Sono sardo e non dimentico”. Altre volte ancora: “L’asino sardo… una volta sola”.

Poi un giorno da un pianeta lontanissimo – un pianeta nebbioso nel cuore di quella che in seguito un gruppo di forsennati avrebbe definito “Padania” – arriva un ragazzo di gambe e di cervello che il 12 aprile del 1970 tira in tuffo una capocciata che sfonda la porta del Bari difesa da Giuseppe Spalazzi noto “Kamikaze” e, dopo essersi presa lo scudetto, prosegue la sua corsa, attraversa la gradinata, schizza verso il porto, sorvola le navi, abbatte un paio di delfini, miete le onde di una tempesta, manda affanculo Civitavecchia, fa una piroetta su Roma, uno sberleffo savoiardo su Torino, sfonda le Alpi, saluta i minatori emigrati a Marcinelle, i braccianti diventati operai a Dusseldorf, is piccioccus de crobi che servono ai tavoli di Londra, is maistus de muru appesi all’impalcatura di un grattacielo di Sydney, i pastori che benedicono l’erba della Pampa. E ricade nel mezzo di uno stadio messicano. Si chiama l’Azteca. E’ il 17 giugno del 1970. Cross di Domenghini, stop di sinistro, finta ancora a sinistra e poi un missile che, infrangendosi alle spalle del cittadino tedesco Josef Dieter Maier noto Jepp, consente all’estenuato pallone di riposarsi sulla rete. Italia – Germania 3 a 2.  El Partito de siglo, Die Jahrundertspiel, la Partita del secolo, che finì 4 a 3.

Ecco, quel tipo lì, poi torna nell’Isola. Si aggira per le strade di Cagliari. Ogni tanto ricompare in tv. Vola. Letteralmente. Segna di testa, di rovesciata, in tutti i modi. Ogni tanto si fa male. Ma poi torna. Ed è sempre là. Con l’aria di un campione del mondo che incredibilmente pare sognare una vita da mediano.

Non è mai snob. Mai appare finto. Lascia il calcio e fa il dirigente sportivo. Serio, diligente. Mai sopra le righe. Sempre al servizio. Scrive anche articoli, commenta, dice la sua. Cose di buon senso. Potrebbe diventare altro che deputato, imperatore di Sardegna. Non cede alle lusinghe. Cammina assorto per le strade. Si ferma a bere un caffè. Pensa alle cose importanti. Un cittadino, un padre di famiglia che ha fatto una fortunata carriera. Che vive dentro una comunità e ne condivide i problemi. Un balente, diremmo. Quello che crediamo di essere, ma non siamo. Forse è soprattutto per questo che gli vogliamo tanto bene. Buon compleanno Gigi Riva.

G.M.B.

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