Fondazione, ecco perché la Regione ha il dovere di vigilare

Sono ormai mesi che Sardinia Post, nel silenzio pressoché assoluto (rotto solo ieri da una presa di posizione di alcuni consiglieri del’opposizione di centrodestra) pone domande, semplici e chiare, alla Fondazione Banco di Sardegna. Lo fa mettendo assieme, sotto la “firma collettiva” di Amsicora, i pareri, i dubbi e le osservazioni di economisti ed esperti della materia. Questo il loro secondo intervento.

Occorre spiegare bene ai nostri lettori perché “Amsicora” vada sollecitando, con questa lunga inchiesta sulla Fondazione Banco di Sardegna, un intervento del Presidente della Regione sarda perché si faccia finalmente chiarezza sulle attività (in chiaroscuro od anche alquanto opache) di un’istituzione che amministra, come “cosa propria”, un patrimonio che è di tutti i sardi, avendolo trasformato, come le verrebbe addebitato, in una privativa ad uso esclusivo di un gruppetto di “compagni di merende politiche”.

Si ritiene dunque di dover mettere subito in chiaro il fatto che la Fondazione non ha ricevuto quel patrimonio da un generoso “zio d’America”, ma lo ha avuto come trasferimento del “capitale netto” del Banco di Sardegna, già istituto di credito di diritto pubblico, secondo quanto disposto dalla legge Amato-Carli. Un capitale – occorre ricordarlo – formato da quanto accumulato in circa 40 anni di storia sarda, grazie all’intelligente impegno di quanti hanno guidato le sorti di quel Banco e, non secondariamente, in virtù dei profitti ricavati amministrando ed impiegando con saggezza i risparmi affidatigli dai sardi. Si tratta quindi di un “bene” storico che non può che essere, indubitabilmente, di proprietà della Sardegna. Si tratta di una titolarità che non va dimenticata, e che impone, quindi, dei comportamenti molto rigorosi ed attenti soprattutto sulla sua tutela, sulla scelta degli investimenti, e, infine, ma senza dubbio come sua principale responsabilità sociale, sull’attuazione di un’attenta vigilanza sull’azienda bancaria da cui si è ricevuto il bene, perché non le si sottraggano mezzi e capacità in modo da continuare a rimanere importante ed indispensabile strumento di crescita per la società e per le imprese dell’isola.

Ci sono infatti due importanti ragioni a giustificazione di questa inchiesta: la prima riguarda la doverosa verifica se la Fondazione abbia effettuato, o meno, un corretto ed efficace utilizzo del patrimonio affidatole dalla legge, che non è un suo bene privato; la seconda – ma non certo di minore importanza: tutt’altro – riguarda l’esigenza di dover sottoporre a verifica se si sia ben esercitato, o no, il ruolo di azionista del Banco di Sardegna spa, avendolo tutelato nel dover rimanere il principale istituto creditizio al servizio e al sostegno dell’economia isolana. Dei risultati di queste due opportune verifiche, e delle osservazioni critiche che ne sono derivate, la Fondazione, a nostro giudizio, non può che risponderne alla Sardegna, cioè al popolo sardo.

Detto questo, occorre ora riassumere che cosa sia istituzionalmente la Fondazione Banco di Sardegna: nata e costituita con un capitale pubblico (pari a quasi 900 milioni di euro), e trasformata, a seguito di successivi passaggi legislativi (leggi Dini, Ciampi, ecc.) in un ente “ibrido” (un mostro giuridico, dirà proprio Giuliano Amato), divenuto “privato” nella sostanza, ma senza azionisti privati, e con un patrimonio altrui ma destinato comunque, per legge, ad intervenire esclusivamente nel welfare pubblico isolano. Per cui la Sardegna, se dev’essere considerata, oltre che titolare di quel patrimonio, anche la beneficiaria privilegiata degli interventi, non vi dovrebbe essere dubbio alcuno che ad essa si dovrebbe rispondere dell’operato svolto, in positivo o in negativo (tra l’altro, magari con un linguaggio peraltro un po’ criptico, la Fondazione ha riconosciuto che quel patrimonio è un “bene originario” della comunità sarda, e di doverne rispondere del suo buon uso “ai soggetti espressione della realtà locale”).

Un’affermazione che lascia peraltro molto perplessi, stante la genericità (voluta?) delle espressioni utilizzate (bene originario e soggetti espressione della realtà locale). Proprio per queste cripticità riguardanti le fondazioni bancarie, si sarebbe aperta negli anni una querelle giuridica su a chi spettasse l’effettiva titolarità di quei patrimoni (la stessa Consulta, attraverso vari equilibrismi giuridici, non avrebbe sciolto i dubbi). Non è stato neppure ben definito – come affermano autorevoli giuristi – a chi dovesse spettare il conseguente potere/dovere di vigilare sul corretto utilizzo ed impiego dei patrimoni ricevuti, visto la terzietà dei soggetti che li detengono. Un’anomalia che farebbe emergere – sempre a loro avviso – «la necessità di dover prevedere degli strumenti di regolazione e delle forme di responsabilità non solo relativamente al potere pubblico, ma anche nei confronti del potere privato, quando sussistano situazioni e interessi pubblici e/o collettivi da tutelare e salvaguardare. La connessione fra potere e responsabilità dovrebbe, sempre più spesso, essere fatta valere indipendentemente dalla natura pubblica o privata del potere esercitato, quando tale esercizio è in grado di produrre effetti rilevanti sulla e per la collettività».

In parole povere, pur trasformato in ente di diritto privato, la Fondazione, che amministra un patrimonio destinato a produrre effetti a vantaggio esclusivo della comunità di riferimento (nel nostro caso la Sardegna), dovrebbe essere assoggettata a forme di vigilanza e di controllo da parte dell’autorità pubblica. E questo indipendentemente dalla titolarità di quel patrimonio. Con la logica deduzione che alla Sardegna, seppure genericamente intesa come comunità, debba spettare il diritto/dovere di vigilare perché l’attività della Fondazione sia svolta, correttamente, a favore ed a vantaggio del “bene comune” dei suoi cittadini.

C’è dunque un potere di vigilanza da dover esercitare, ed esso dovrebbe interessare, in primo luogo, i rappresentanti istituzionali della Regione sarda (come soggetti espressione della realtà locale), in modo che si possa sopperire, seppure in via suppletiva, alle carenze odierne in tema di controllo e/o vigilanza sulle attività della Fondazione. Proprio perché non si perpetui in eterno quanto rilevato criticamente dal più importante quotidiano economico del Paese, con «delle Fondazioni bancarie, a cui fanno capo circa 50 miliardi di euro di patrimoni, lasciate gestire impunemente da un gruppo limitato ed esclusivo di notabili, cooptati da politica e poteri forti locali, forti di un’autoreferenzialità blindata dagli statuti».

Ancora: c’è quindi da domandarsi, come conclude l’editoriale di quell’autorevole quotidiano, se si dovrà continuare a permettere ad una «rete fittissima di clientelismo, a monte e a valle di gran parte delle Fondazioni, messa in piedi per ingraziarsi il potere in carica od aspirante ad esserlo, per acquisire consensi e per distribuire prebende, ed a cui l’economista Luigi Zingales fece già riferimento in un duro j’accuse un paio d’anni fa, di prosperare in barba ad ogni controllo pubblico». Sembra quasi che in questa pesante osservazione si descriva, con cruda icasticità, il nostro “caso sardo”.

Anche due autorevoli professori, Tito Boeri e Luigi Guiso, dal sito lavoce.info, hanno offerto un interessante contributo di chiarezza su questo tema di cui c’era davvero bisogno. In sintesi i due professori hanno spiegato come le fondazioni siano ormai sulla plancia del Titanic: con molti dati di bilancio senza chiara trasparenza; con il serio rischio che il loro patrimonio si assottigli pericolosamente a causa di investimenti spericolati penalizzando così la propria missione che è quella di perseguire scopi di utilità sociali; con un assetto di governance da rivedere profondamente. Aggiungendo inoltre, che, se nulla dovesse cambiare non sarebbe da escludere addirittura un intervento parlamentare al fine di utilizzarli, ad esempio, per abbattere una parte del debito pubblico. In parole povere, l’augurio dei due noti economisti è che si imponga, come atto necessario ed urgente, quello di “cambiare le regole” oppure di “disporne la soppressione”.

Per la verità, queste posizioni paiono forse eccessivamente radicali, in quanto non è tanto l’istituzione in quanto tale ad essere una sorta di impossibile ircocervo giuridico, per metà caprone (privato) e per metà cervo (pubblico), ma la ragione prima dell’ostilità critica andrebbe attribuito a chi ne ha improvvidamente prostituito l’identità originaria, occupandone piratescamente le governance, con regole e metodi da società feudale. Andrebbero quindi cambiate e non soppresse: è questa un’opinione abbastanza diffusa ed anche condivisibile.

Perché, dunque, questo lungo preambolo per affrontare la vexata quaestio della Fondazione sarda? Le ragioni sono diverse: la prima, certamente, attiene alla certezza politica che la Regione sarda debba esercitare un controllo di merito – non solo come atto di supplenza – sulle destinazioni e sugli utilizzi di quel patrimonio, che è bene comune di tutti sardi, perché si indirizzino verso effetti positivi per la società isolana, e non dispersi, invece, in rivoli oscuri e/o clientelari; la seconda riguarda ancora l’esigenza, in quanto titolari di un proprio “bene originario”, di dover verificare se i vertici della Fondazione mantengano, o meno, degli ininterrotti rapporti incestuosi con la politica, grazie ad un deprecabile sistema di partenogenesi; la terza, infine che è certamente la più significativa, per conoscere se l’attività della Fondazione è stata ben diretta:

a) nella sua funzione di azionista, perché l’azienda bancaria non subisse depotenziamenti e, soprattutto, perché mantenesse il suo importante ruolo di autonomo e valido strumento creditizio a favore dell’economia isolana;
b) nella sua funzione di investitore istituzionale, per assicurare agli investimenti fatti le garanzie di sicurezza e di redditività imposte dalla legge e, non secondariamente, per ottenere benefici di sviluppo e di progresso a favore dell’isola;
c) nella sua funzione di erogatore di aiuti per scopi di utilità sociale e di promozione dello sviluppo economico, perché essi siano stati ben indirizzati, dando il giusto rilievo alla valenza sociale, culturale ed economica delle iniziative proposte e finanziate.
Perché dunque debba essere proprio la Regione, attraverso il suo presidente-governatore, a dover chiarire i risultati, positivi o negativi, ottenuti dalla Fondazione nell’esercizio di quelle tre funzioni?

A tal fine, può essere opportuno fare una premessa. Dei circa 90 istituti creditizi di diritto pubblico interessati nel 1990 dalla legge Amato-Carli a doversi trasformare in società per azioni, il Banco di Sardegna presentava delle evidenti anomalie, essendo l’unico ad essere stato istituito nell’età repubblicana e, soprattutto, all’interno di una Regione autonoma a statuto speciale.

Infatti, quando, a metà degli anni ’50 del secolo scorso, la c.d. legge “Campilli” istituirà il Banco di Sardegna come ente creditizio di diritto pubblico, proprio nel rispetto degli interessi della Regione Autonoma appena costituita, gli verrà riconosciuto – seppur sostenuto da un fondo di dotazione fornito dal Tesoro dello Stato – uno stretto legame con l’Ente Regione: infatti tre dei nove consiglieri d’amministrazione dovevano essere indicati proprio da quell’Ente, ed il presidente ed il direttore generale dovevano essere indicati e nominati previa intesa con il presidente della Regione.

Non vi è dubbio, quindi, che, pur non essendo un’istituzione regionale, al Banco venne allora assegnato un collegamento molto stretto con la Regione, tant’è che in un intervista di quegli anni, proprio il ministro Pietro Campilli dichiarerà come il governo nazionale avesse «messo a disposizione dell’isola e della sua Giunta di governo, un importante strumento finanziario come sostegno alle politiche di sviluppo e perché operi in stretta collaborazione ed in intesa con i programmi e gli obiettivi della Regione». Legame – occorre ricordare – che si manterrà sempre molto stretto, anche attraverso costanti consultazioni e con la formulazione di leggi di sostegno (come ad esempio nel credito agrario, navale od alberghiero) nate in stretta collaborazione ed intesa, e con la presenza di responsabili regionali negli stessi organi bancari per l’erogazione dei mutui.

A differenza quindi del “Sicilia”, del “Napoli” o del “Monte Paschi”, il Banco di Sardegna era giunto alla sua trasformazione in spa, con il conseguente trasferimento del suo capitale alla Fondazione, con dentro di sé una chiara ipoteca dell’Ente Regione. C’è quindi da domandarsi, non senza un pizzico di malizia, perché nessuno mai dalle stanze alte di viale Trento abbia interloquito con il Governo nazionale, come era avvenuto nel passato con l’on. Campilli, rivendicando un riconoscimento di quelli che, almeno politicamente, erano dei legittimi interessi della Regione Autonoma della Sardegna?

Se questo è il passato su cui peraltro non vale certo recriminare, se non per ricordare quel legame “tutto politico” esistito tra Banco e Regione, ed al di là delle ragioni contingenti che possono individuarsi anche nei più recenti e farraginosi interventi legislativi, resta – a nostro giudizio – una questione di fondo che percorre tutto il processo di trasformazione del Banco di Sardegna ente pubblico, conferente del suo “capitale netto” ad un ente di diritto privato come è ora la Fondazione. Cioè vi è l’esigenza di richiedere un ruolo “attivo” della Regione quale garante pubblico della correttezza istituzionale della Fondazione nei confronti degli interessi della comunità sarda.

Come si può ben comprendere, quel che si sostiene – l’essere, cioè, importante e necessario un intervento di chiarimento/controllo da parte del presidente Francesco Pigliaru – non è quindi un escamotage velleitario per tirare, magari, un siluro alla casta partitica che oggi occupa, da padrone, la Fondazione.

Questo perché sembrerebbero esserci molte zone d’ombra nella gestione. Gli stessi investimenti effettuati parrebbero irrispettosi di quelle condizioni di sicurezza del beneficiario e di positività per la comunità sarda (i casi della IVS e della 2Ai lo confermerebbero). Non diversamente si potrebbe essere critici su quella distribuzione “a pioggia” di aiuti e sostegni indirizzati perlopiù a costituire clientele ed a fidelizzare amici e compagni, con modeste ricadute sul welfare dell’isola. La stessa partecipazione principe (nella società bancaria) in assenza di chiarimenti e di spiegazioni, potrebbe addirittura apparire gestita con il solo scopo di incrementare il proprio “particolare” potere, accettando quindi, ad esempio, d’essere, non importanti e determinanti consoci, ma umili servitori dei banchieri modenesi della Bper, e questo in cambio di qualche ben remunerata ma ininfluente poltrona.

C’è necessità infatti di dover capire perché il Banco abbia accettato, con l’assenso della Fondazione, il concambio di “uno a cinque” tra le azioni ABF e Sardaleasing, mentre – per quel che qualcuno ha inteso sostenere – sarebbe stato più rispondente al vero il rapporto di “uno a tre”, o giù di lì (avendo così consentito un evidente depauperamento del patrimonio della spa bancaria). O perché si sia assentito alla sottrazione degli sportelli nella penisola, destinandoli ad incrementare, a costo zero e con evidente vantaggio, la rete operativa della Bper, ma avendo così mortificato, ulteriormente, la dimensione nazionale del Banco; o, ancora, perché il giudizio finale sugli impieghi creditizi non spetti più al CdA del Banco, ma sia stato devoluto agli uomini di Modena, interessati certamente a tutelare logiche esterne all’Isola; infine perché dal suo top management siano stati esclusi, uno dopo l’altro, tutti i dirigenti interni (se ne potrebbero fare i nomi), tanto da rendere quel che era un importante gruppo bancario polifunzionale, con un proprio management d’alto livello, niente altro che una modesta succursale eterodiretta dalla banca emiliano-romagnola.

(Bisognerebbe infine tenere presente, se si può dare credito ad una stima avanzata da un buon conoscitore di quelle vicende, come il prelievo di valori, effettuato in 14 anni dalla Bper sulle sostanze del Banco di Sardegna, anche grazie al silenzio-assenso della Fondazione, non dovrebbe essere inferiore ai 300/350 milioni di euro!).

Può la Sardegna continuare ad assistere, in silenzio, a questa spoliazione? Può il suo presidente-governatore rimanere assente dal prendere posizione e dall’intervenire decisamente su questi fatti? Cosa possono dire ai sardi, come chiarimento, i presidenti Cabras ed Arru, che di questo diseguale rapporto Fondazione-Bper ne sono stati, in qualche modo, se non attori almeno spettatori privilegiati? Cosa ne pensa, infine il Pd, che ha in mano tutte le carte di questo infausto “gioco di potere”, visto che dichiara di voler essere l’erede della moralità politica berlingueriana oltre che lo strenuo difensore degli interessi dei sardi, nel ricordo degli strali gramsciani contro gli “spoliatori continentali”?

Sono domande che attendono risposta.

Amsicora

 

 

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