La Fondazione e i soldi dei sardi. Ecco le domande che attendono risposta

Sembrerebbe che nei palazzi di viale Trento e di via Roma, dove hanno sede i poteri regionali, non si abbia (o non si voglia avere) conoscenza di quel che sono, per diffuso giudizio, le molte perplessità che suscita l’agire della “Fondazione Banco di Sardegna”. Che non riguardano tanto l’operare come piccolo elemosiniere per una platea di petenti più o meno bisognosi, quanto, e soprattutto, nella sua funzione principale di dover essere un accorto e previdente investitore di un ingente patrimonio, che non è cosa propria ma “bene originario” dell’intera comunità sarda.
Ed è stato proprio questo il “lato in ombra” su cui il gruppo di Amsicora si è prefisso di voler fare luce, stimolato in questo dalle reticenti dichiarazioni che il presidente Francesco Pigliaru ha reso di recente al Consiglio regionale. Affermando d’essere personalmente dell’avviso che un’uscita della Fondazione dal capitale della banca sia operazione auspicabile, in modo che possa meglio investire quei 352 milioni di euro in iniziative più utili e profittevoli per il progresso dell’isola.

Quel che pare essere sfuggito al presidente Pigliaru, oltre al fatto che le nostre critiche vertevano soprattutto sull’inquinamento partitico e sull’inettitudine della Fondazione, è che gli investimenti complessivi della Fondazione ammontano, secondo l’ultimo bilancio, a circa 880 milioni di euro, mentre la partecipazione nella banca ne rappresenta appena il 40 per cento. Si vorrebbe quindi capire dove sono stati investiti gli altri 528 milioni. Se e come verso attività, dirette od indirette, utili all’economia ed alla società dell’Isola. Prendendo atto che il 45 per cento è impiegato in azioni di società quotate, mentre il restante 55 (pari a 290 milioni di euro) in titoli di varia natura (obbligazioni e fondi comuni).

Un vero e proprio tesoretto, quindi, su cui – al di là della partecipazione alla banca – poter mettere in piedi quella strategia di utilità all’economia isolana auspicata dal governatore. Ma la Fondazione lo ha fatto?

L’ANALISI DELLE PARTECIPAZIONI

Per poter dare una risposta, si è partiti dalla analisi delle partecipazioni nel suo portafoglio che, al netto di quella nel Banco, ammontano a 236,5 milioni di euro. Vi si trova quella nella Cassa Depositi e Prestiti (167,8 euro), nella Bper (22,6 milioni), nella F21, una società per la gestione del risparmio (con l’on. Franco Mannoni nel CdA), e ancora 5 milioni in una misteriosa “IVS Group S.A. di diritto lussemburghese”, indicata ufficialmente come esercente “servizi finanziari”, ma nella realtà impegnata nel mercato dei distributori automatici di bevande e snack (sic!), di cui ne possiede 195 mila, ed il cui titolo, quotato in borsa, appare peraltro piuttosto ballerino, determinando minusvalenze (in bilancio 3,6 milioni di €). Altri titoli, per poco più di 40 milioni di euro, si riferiscono a tre big society nazionali come Terna, Enel e Snam.

Anche il portafoglio titoli avrebbe riservato parecchie sorprese. Proprio nella direzione di quello che il presidente Pigliaru auspicherebbe essere l’obiettivo principale della Fondazione. Il totale delle obbligazioni, che è indicato in bilancio in 196,8 milioni di euro (ma pari a 186,4 come valore effettivo sul mercato) è composto per € 92,1 milioni di titoli di debito della Bper (cioè un finanziamento concesso al socio nel Banco con obbligazioni pluriennali); per € 56 milioni in titoli di debito della “Novus Capital limited” (il loro valore reale è però di soli 40,5 milioni, e la società, con sede a Sidney, si occuperebbe soprattutto di finanziamenti nello start-up delle imprese australiane); per 20 milioni nella ELM (pur privi di informazioni ufficiali, si presume trattarsi di una società finanziaria ticinese ora posta in liquidazione), ed infine per € 35 milioni in BTP pluriennali.

Non diversi risultati avrebbe riservato l’analisi dei fondi comuni di investimento, acquisiti per 116,8 milioni di euro. Nel senso, va chiarito, d’una verifica se essi abbiano svolto, o meno, una loro funzione di supporto all’economia della Sardegna. L’acquisto più importante risulta essere quello riguardante il fondo F2i (Fondo italiano per le infrastrutture), a cui sono andati, fra il 2008 ed il 2012, ben 55,4 milioni di euro. Ora, degli oltre 2 miliardi di euro già investiti in opere pubbliche, aeroporti (Napoli e Milano) e reti idriche, energetiche e di telecomunicazioni, non vi sarebbero però destinazioni riguardanti opere per l’isola.

Altri 24,1 milioni sono andati al fondo “Muzinich”, specializzato in investimenti nell’area nordamericana e mitteleuropea, gestito da una società con sede a New York ed uffici a Londra e Colonia, ed anch’essa estranea al mondo sardo. In portafoglio vi sono poi gli 11,5 del fondo “Omicron Plus”, gli 8,3 del fondo “Clear Energy One” che investe nelle energie rinnovabili, i 4,7 milioni del fondo “Geo Ponente”, i 3,2 milioni di quello “Ver Capital Mezzanine”, anch’essi impegnati in iniziative che risulterebbero tutte overseas. Solo nei 6,6 milioni di euro impiegati nei fondi emessi dalla “Vertis SGR” (capital e venture) si sono rintracciati investimenti nellIsola per 4,5 milioni, destinati a cinque società innovative (in fase di start-up e con l’occupazione di alcune unità), operanti nel campo dell’Information and communications technology (ICT) e dell’E-commerce, nell’ambito del CRS4 e di Polaris.
Si è dunque dell’avviso che il presidente Pigliaru per primo, e con lui tutti i sardi, debbano riflettere su queste informazioni. Perché l’unico, significativo investimento della Fondazione che risulti utile alla Sardegna, continua ad essere soltanto quello nella banca. A cui però è finora pare essere mancata l’attenzione e l’avvedutezza necessarie ad un buon azionista, giacché la governance dell’istituzione sassarese si sarebbe dimostrata incapace di a far valere il peso decisionale del suo 49 per cento di partecipazione al capitale.

LO STATUTO NEOFEUDALE

Allora, il “punctum dolens et pruriens” di tutta questa vicenda finanziaria in salsa sarda, sta proprio nella Fondazione: nel suo statuto neofeudale. Proprio perché (lo si ricordi bene) l’incrocio incestuoso tra politica e finanza non va ricercato nella banca, ma – innanzitutto e soprattutto – nella Fondazione, divenuta “hortus conclusus”, e dominio di un clan partitico rigidamente autoreferenziale. Il cui primo interesse non pare – almeno a esaminare gli atti di cui si dispone, ma ovviamente vorremmo sbagliarci – quello di orientare  i propri interventi a quei principi di trasparenza, d’imparzialità e di responsabilità nei confronti dell’intera comunità dei sardi, come sanciti dalla legge istitutiva.

L’esame degli investimenti effettuati, suscita il dubbio che talune scelte siano state influenzate dall’esterno, senza che sia stata prestata la dovuta attenzione  a quei principi di adeguata redditività e di salvaguardia del valore su cui si dovrebbero ispirare (è di appena il 3,8 per cento il ricavato dal totale degli investimenti, e i casi dell’IVS Group e della Novus Capital suscitano più di qualche perplessità). Né si trovano adeguate e coerenti risposte a quell’impegno, assunto con la sottoscrizione della “Carta”, di trovare dei collegamenti efficaci tra l’investimento del patrimonio ed il sostegno ad iniziative di chiara utilità per il progresso dell’isola.

C’è dunque, a giudizio di noi di Amsicora, un principio da affermare e da sostenere con decisione e fermezza. Ed è quello della evidente ed incontestabile “natura pubblica” della Fondazione e, quindi, del suo obbligo di dover rispondere del proprio operato alla comunità sarda. Perché è indubbio che i suoi stakeholder, cioè gli azionisti di controllo, siano i sardi. E di conseguenza vi è la sua responsabilità oggettiva di dover finalizzare i propri investimenti, a partire da quello nella società bancaria, nell’obiettivo obbligante di contribuire alla promozione dello sviluppo economico della Sardegna, in aderenza e nella consapevolezza di operare in maniera imparziale nell’esclusivo interesse generale della Sardegna.

Detto questo, cedere, o meno, le azioni del Banco di Sardegna ancora in mano alla Fondazione, non è materia che possono decidere in solitudine  il CdA della Fondazione medesima, ma è fatto squisitamente politico su cui debbono impegnarsi, in trasparenza e con chiara assunzione di responsabilità, tutte le forze politiche presenti nella nostra Assemblea regionale. Questo è quel che noi pensiamo e sosteniamo.

Amsicora

 

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