Fondazione e Sardaleasing, apriamo una discussione pubblica

Da più di un mese Sardinia Post, attraverso gli interventi dell’economista Antonio Sassu e dell’ex amministratore del Banco di Sardegna , ha segnala il caso del trasferimento della maggioranza delle azioni di Sardaleasing alla Banca Popolare dell’Emilia Romagna. Un problema serio e grave che i due economisti hanno affrontato con ragionamenti pacati e problematici supportati da informazioni certe e da dati economici precisi. In questo stesso periodo il mondo politico isolano è stato sconvolto dalla vicenda dei vitalizi, esplosa a livello nazionale con l’intervista di Claudio Lombardoa A questa vicenda tutti gli organi d’informazione hanno dedicato decine di pagine e ore e ore di servizi radiofonici e televisivi. Giustamente, perché il caso dei vitalizi chiama in causa la politica e il modo di intenderla. Ma il caso di Sardaleasing chiama in causa, se possibile, qualcosa di più: il modo di intendere l’economia della Sardegna e i suoi strumenti per lo sviluppo. Ma nessuno pare voglia parlarne. Le persone e le istituzioni chiamate in causa tacciono. Noi no. Pubblichiamo oggi un nuovo intervento di Paolo Fadda sul ruolo e le responsabilità della Fondazione del Banco di Sardegna.

Caro Direttore,

per quel che si sta discutendo in queste ultime settimane sul c.d. “scippo Sardaleasing”, e sulle responsabilità che potrebbero essere attribuite alla Fondazione, come azionista del Banco di Sardegna, credo che sia necessario iniziare a riflettere sulla natura di quest’istituzione. Che giuridicamente la si vorrebbe di natura privata, pur dotata di un patrimonio d’origine pubblica e perseguente delle finalità d’interesse pubblico: quindi un “mostro giuridico” secondo l’amara definizione di Giuliano Amato (che le aveva create nel 1990 come enti pubblici) o, secondo altri, dopo la riforma Ciampi (che le volle private), “degli ermafroditi economici”.

E che la sua natura giuridica sia stata oggetto di molte critiche ne è la controprova il susseguirsi in questi ultimi vent’anni di interventi legislativi (ben sei) e di sentenze della Corte costituzionale, fino all’ultima legge (la n. 22 del 2010) che, pur confermandone la natura privata, ne ha delegato il controllo al Ministero dell’Economia, disattendendo il parere di quanti avevano indicato la Banca d’Italia.

Che sia un problema controverso, e ricco di molte contraddizioni e vischiosità, lo si ritrova su quanto accaduto recentemente a Siena ed a Genova, due vicende che hanno messo a nudo l’ambiguità e la pericolosità dei rapporti tra fondazione e banca di riferimento.

Mi piace ricordare in proposito come l’autorevole pool di economisti e finanzieri che operano sotto l’insegna de “lavoce.info”, ha avviato da tempo una lunga serie di interventi critici molto acuti e puntuali su queste anomalie, auspicando che si ponga fine ad una pericolosa e non chiara ibridazione, di compiti e di responsabilità, tra fondazioni e banche partecipate.

Le loro critiche principali possono essere incentrate in questi tre punti:

1) la scarsa, se non assente, professionalità finanziaria dei componenti i consigli di amministrazione delle fondazioni (secondo la loro ricerca solo l’uno per cento dei componenti mostra d’avere competenze di finanza);
2) la loro progressiva trasformazione in veri e propri “presidi di gruppi di interesse” (più o meno legati a lobby politiche), che ne determinano e ne dirigono obiettivi ed interventi, secondo le proprie private inclinazioni;
3) l’adozione di particolari norme statutarie atte a consentire l’autoperpetuazione degli organi amministrativi, in modo da tutelare i gruppi d’interesse, sottraendoli ad un giudizio e ad un ricambio da parte delle comunità locali di riferimento.

Non si tratta di critiche all’acqua di rose, certamente, ma possono servire per avviare queste riflessioni sulla “nostra” Fondazione. Nell’intento di poter motivare un ponderato giudizio sul suo operato, presente e passato. Partiamo dall’ultimo punto, quello che prevede le modalità di nomina negli organi amministrativi.

Essi sono composti da un Comitato di indirizzo di diciotto membri che dura in carica quattro anni, e da un Consiglio di amministrazione di sette membri che dura in carica tre anni. Al primo spetta il compito di nominare nel suo seno il Presidente della Fondazione e, con libera scelta, anche i membri del Consiglio di amministrazione.

Appare assai curioso il modo con cui vengono nominati i suoi diciotto componenti: lo stabilisce l’articolo 27 dello statuto vigente “Cinque membri del comitato di indirizzo sono scelti direttamente dal comitato di indirizzo. Quattro altri membri del comitato di indirizzo sono scelti sulla base delle designazioni delle due università degli studi della Sardegna. Nove, infine, sono scelti sulla base delle designazioni provenienti dal Consiglio regionale della Sardegna, dai quattro Consigli provinciali della Sardegna, dalle quattro Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura della Sardegna, dai quattro Consigli provinciali della Sardegna (sic!). Nel caso di soppressione o commissariamento di questi ultimi, le designazioni sono effettuate dal comune capoluogo delle circoscrizioni provinciali di Cagliari, Oristano, Nuoro e Sassari. Ognuna di tali istituzioni propone una terna di candidati”.

Ma non è tutto: il successivo articolo 28 appare ancor più curioso, in quanto dispone che “Il comitato di indirizzo in carica, almeno venti giorni prima della scadenza del suo mandato, provvede a nominare i componenti del comitato destinato a subentrargli. La nomina è effettuata con unica delibera, previe le necessarie verifiche”.

Si può ben comprendere come queste procedure favoriscano proprio quella condizione di autoperpetuazione di cui scrivono criticamente gli economisti de “lavoce.info.

Vorrei astenermi, infine, dal verificare, o dal dover avvalorare, se i primi due appunti critici prima citati possano anche riguardare i comportamenti della “nostra” Fondazione, ma certamente quel che è avvenuto per Sardaleasing e dintorni, oltre a quanto riguardato il recente scambio di presidenze (su cui è stato molto critico lo stesso Francesco Pigliaru), inducono a pensare che anche da noi ci sia qualcosa che meriti d’essere rivisto.

Mi stupisce infine, e lo dico proprio sottovoce, se sia corretto che l’azionista Fondazione, mentre continua ad assistere passivamente alla spoliazione degli assets più interessanti del Banco di Sardegna, perdendone anche le plusvalenze e restringendone gli spazi di attività, contestualmente continui a finanziare generosamente lo spoliatore con cifre di centinaia di milioni (di euro, naturalmente), perché possa aggiustare i suoi conti od espandersi anche oltralpe.

Non sarebbe giusto, le domando, aprire un confronto, una discussione aperta qui in Sardegna che ci faccia capire se quegli ottocento e passa milioni di euro del patrimonio della Fondazione siano stati, e siano tuttora effettivamente “utili e fertili” per il nostro sviluppo civile, o se – invece – occorrerebbe cercare di voltare pagina?

Paolo Fadda

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