Fondazione, Banco, Bper. Chi vigila sulle risorse della Sardegna?

Come in effetti avevamo previsto, prosegue il silenzio tombale dei diretti interessati, dei partiti, delle istituzioni, degli organi di informazione, attorno alla vicenda del Banco di Sardegna, della Banca Popolare dell’Emilia Romagna e della Sardaleasing. E, come annunciato, noi proseguiamo nel pubblicare le domande in attesa di risposta. Ecco un nuovo intervento di Paolo Fadda.

Caro direttore,

mi scuso se ritorno ancora, forse con un eccesso di petulanza, sulle vicende del Banco di Sardegna e dintorni. Ma l’argomento impone qualche ulteriore riflessione sul ruolo svolto dalla Fondazione che, del Banco, ne è il secondo importante azionista. E suggerisce ancora qualche rilievo sul perché essa abbia spesso abdicato dal suo diritto-dovere di vigilanza, pur forte del 49% di azioni, affinché la conduzione dell’azienda bancaria si svolgesse nel rispetto della sua identità isolana e come strumento di tutela e di crescita del sistema finanziario regionale (cioè delle esigenze creditizie delle nostre imprese).

Questo nella convinzione che le economie locali, per le loro particolarità storico-ambientali, abbiano necessità, secondo consolidate esperienze, di poter contare su istituzioni finanziarie in stretta sintonia con le specificità dell’imprenditoria del luogo.
Ecco perché con alcuni autorevoli amici si è scesi in campo a voler difendere il Banco di Sardegna dalle continue “spoliazioni” subite, dal suo progressivo depotenziamento patrimoniale e – non ultimo – dal fatto d’avere perduto quasi del tutto i suoi contenuti di sardità. E, conseguentemente, come causa del preoccupante nocumento subito dal sistema produttivo locale.

Per meglio chiarire queste valutazioni credo sia necessario premettere alcuni interrogativi da rivolgere all’establishment politico regionale: innanzitutto, se l’autonomia delle leve finanziarie debba essere, o meno, parte integrante dell’autonomia socio-politica della Sardegna. Cioè se una banca dal forte radicamento locale, sia necessaria, o meno, per promuovere, sostenere ed accompagnare lo sviluppo economico dell’isola.

Ancora, se si condivida, o meno, la validità di una correlazione virtuosa fra localismo bancario e sviluppo locale. Cioè se le banche locali vadano viste, o meno, come parti importanti del sistema infrastrutturale dell’economia del territorio.

Vede, caro direttore, allorquando prese forma e sostanza l’autonomia regionale (mi riferisco agli ’50 del secolo scorso), in Sardegna, priva fino ad allora di istituzioni creditizie locali, si pensò di dover costituire: (a) una banca di credito commerciale, il Banco di Sardegna; (b) un istituto per il credito industriale, il Cis; (c) una società per le partecipazioni azionarie di “venture capital”, la Sfirs. Si trattava di tre importanti istituzioni creditizie destinate a coprire tutta l’area del finanziamento alle imprese ed affidate interamente a sistemi locali di governance.

Oggi, tutt’e tre hanno perso, pur per cause diverse, quell’identità e non sono più, come allora, “co-agenti dello sviluppo”, impegnati a favorire il progresso dell’economia sarda. Cioè, si è ritornati indietro, in tema di strumentazioni creditizie, all’ ante 1950. Perché le leve finanziarie sono tornate ormai, come allora, quasi interamente in mani forestiere. Le ragioni, e le colpe di questo, possono essere diverse ed anche gravi, in gran parte attribuibili a disfunzioni ed a fragilità interne agli istituti, ma è evidente come la dirigenza politica regionale, quale tutor della loro autonomia, abbia commesso, nel caso, una colpevole omissione di soccorso e di tutela.

Vorrei ricordare che quella perdita d’autonomia avvenne a partire dagli anni ’90, per via di due interventi legislativi voluti dal Governo nazionale: la trasformazione in società di diritto privato degli enti bancari pubblici e la nascita della banca “universale”, superando il precedente steccato di specializzazione, fra il credito a breve e quello a medio-lungo termine (per meglio capirci, il Banco di Sardegna avrebbe potuto agire come il Credito Industriale Sardo e viceversa). Primo passo per un’auspicata “privatizzazione” dell’intero sistema bancario del Paese.

Purtroppo, osservandone i risultati, non fu una decisione felice e provvida, perché quell’ampliamento a 360 gradi dei loro campi d’intervento avrebbe provocato, contrariamente alle attese, più fragilità e perdite che vantaggi e profitti. Tanto da indurre la banca centrale a patrocinare (favorire e talvolta imporre) concentrazioni fra più istituti, in modo da salvarne e rafforzarne le strutture. La nascita di colossi come Unicredit e Intesa San Paolo e, per certi aspetti, come il gruppo Bper, sarà il risultato di una svolta che avrebbe annullato il radicamento locale di banche come il Sicilia, il Napoli e il Sardegna. Un fatto divenuto assai negativo in territori come il nostro, dove i prestiti bancari risultano la fonte predominante di finanziamento delle imprese.

Come risultato della sua “modenizzazione”, il Banco di Sardegna avrebbe progressivamente visto diminuire le sue quote d’affari sul mercato locale e, non secondariamente, assistito all’attribuzione della sua guida ad una direzione eterodiretta e sintonizzata su esigenze ed interessi del tutto esterni all’isola. E che ai suoi dipendenti locali venisse riservato il ruolo d’essere soltanto degli anonimi “ascari”, truppa coloniale al servizio di ordini ed interessi altrui.

Con un’aggravante ancora in più: mentre quel Banco pubblico, con le sue dipendenze nella Penisola, s’era attivato per importare nellIisola, da quelle economie più ricche, risorse, esperienze e profitti, quel nuovo corso avrebbe invertito la rotta, con containers di risorse e profitti isolani imbarcati verso destinazioni emiliane. Basterebbe osservare, per credere, gli andamenti patrimoniali (con segno più o segno meno) dei due istituti.

Cioè, da quel novembre del 2000, la Sardegna delle autonomie ne avrebbe persa una delle più preziose: quella d’una leva finanziaria, di buon livello e ben strutturata in un gruppo creditizio polifunzionale, con la sua stessa identità anagrafica, oltre che fortemente radicata nel territorio e perseguente obiettivi sintonici alla sua direzione politica.

Si è dell’opinione, comunque, che poco valga piangere sul latte versato, sulle cause – pur imputabili anche a noi sardi – che portarono a dover cedere il Banco a banchieri esterni: credo invece che occorra essere pragmatici e fare di necessità, virtù. Partendo dal fatto che una quota non esigua del suo capitale è rimasta in mano alla comunità sarda. E che un azionista di minoranza, se avveduto ed attento, può sempre avere in mano un suo indiscutibile potere, di controllo, di tutela e di indirizzo.

Ecco perché, caro direttore, il discorso sulla Fondazione diventa centrale in questa congiuntura. Perché ad essa è affidata, per legge, la gestione di quella quota di capitale e, più concretamente, il compito di dover esercitare un’attenta “vigilanza” perché il Banco non perda capacità operative, non devii da quel ruolo di istituzione finanziaria a favore dell’economia isolana, e, soprattutto, che la gestione del credito (e più ancora, dell’intermediazione finanziaria) sia finalizzata prevalentemente al sostegno del sistema produttivo isolano.

Da qui nascono i rilievi e le preoccupazioni di quanti, come me, hanno assistito ad un ruolo passivo (od almeno, disattento) della Fondazione di fronte al progressivo depotenziamento del “suo” Banco. Infatti, dal 2000 in avanti ed a valori costanti, ad una crescita esponenziale della Bper, avrebbe corrisposto una parallela decrescita del “Sardegna”.

Ci si può rendere conto – gentile direttore – come il problema sia di fatto più politico che societario. Che investe in prima persona le responsabilità di chi ha il compito politico e istituzionale di dover ben tutelare e meglio valorizzare i beni pubblici regionali (ed i quasi 400 milioni di euro “sardi” investiti nel capitale del Banco si è certi che lo siano). È quindi la Regione Sardegna a dover esercitare quella vigilanza, utilizzando il peso della sua autorevolezza (chiamiamola pure moral suasion) nei confronti della Bper, perché trovi sintonie operative con i programmi dell’autorità politica. E, non secondariamente, nei confronti della Fondazione perché, come secondo azionista del Banco, eserciti con autorevolezza e sapienza i suoi diritti di controllo e di tutela, evitando quei pesanti trafugamenti di assets e quelle gravose imposizioni di services esterni che ne condizionano e ne appesantiscono le gestioni.

Le nostre preoccupazioni, dopo i fatti della Sardaleasing, della sottrazione delle sedi continentali e delle sudditanze accettate con i patti parasociali, vanno al di là d’un inutile rimpianto o d’un pur severo rimprovero: esse sono volte a chiedere alla Regione (se ha la consapevolezza di quel che si è espresso) di mettere in campo la sua più attenta vigilanza sugli assetti presenti e futuri del Banco. Facendo in modo che il ruolo dell’azionista Fondazione non sia soltanto quello di limitarsi a raccogliere le poche briciole (quelle dei dividendi ufficiali) rimaste localmente dopo il lauto banchetto consumato dai padroni modenesi.

Paolo Fadda

(ex amministratore del Banco di Sardegna)

 

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