Una domanda al presidente: la Fondazione è una loggia underground?

Sicuri di non annoiare i lettori, proseguiamo nella pubblicazione di interventi sulla vicenda della Fondazione del Banco di Sardegna. Ribadendo che ospiteremo, con tutto lo spazio che le persone interpellate riterranno necessario, le risposte. Che ancora, dopo mesi, non sono arrivate.

Nella saggezza popolare, con il detto “menare il can per l’aia” s’intende far riferimento a quel modo, messo in pratica da certuni, atto a sottrarre l’attenzione da ciò che interessa, creando solo molta confusione e bizzarri diversivi. Per questo vien da dire che la Fondazione Banco di Sardegna non abbia fatto altro che “menare il can per l’aia” in quel lungo articolo, ospitato con grande evidenza nelle pagine de l’Unione Sarda di domenica 27 luglio, ma ricco, peraltro, solo di nullaggini (cioè di non-notizie, per dirlo giornalisticamente). Creando soltanto maggiori perplessità attorno ai suoi rapporti un po’ ambigui con la Banca Popolare dell’Emilia Romagna (Bper), di cui è co-azionista nel Banco di Sardegna Spa.

Se qualcuno s’aspettava chiarezza sui tanti perché hanno interessato la pubblica opinione in questi ultimi mesi (dai patti parasociali capestro denunciati da Arturo Parisi, allo “scippo” della Sardaleasing e delle filiali continentali denunciate da Antonio Sassu & C) è rimasto deluso: s’ è solo detto, in oltre 2 mila parole, che s’è inteso partecipare all’aumento di capitale da 750 milioni di euro della Bper con 8 (sic!) milioni, l’un per cento, e che si va valutando se cedere parte della partecipazione al capitale del Banco, naturalmente alla solita Bper che ne detiene il diritto di prelazione.

Comunque, al di là di questi rilievi critici, appare significativo, oltre che importante, che la Fondazione – fino ad ora muta e sorda – abbia “aperto bocca”, informando, seppure ad usum delphini, la pubblica opinione isolana su alcune iniziative in atto. Che si tratti di un ravvedimento volontario (come s’usa per i tributi) o della constatazione d’avere “la coda di paglia” per quanto addebitato, parrebbe opinione indifferente, dato che l’aver scoperto che non sia più muta e sorda è già un bel risultato, per chi, come noi, ritiene che la Fondazione abbia in gestione un patrimonio che è di tutti i sardi (che, cioè, sia di natura pubblica, in quanto proveniente dal “capitale proprio” di un istituto di credito di diritto pubblico), e che, perché tale, non debba né possa tralasciare la trasparenza delle sue azioni.

In effetti, ci si sarebbe attesi dei chiarimenti, nel senso, magari, informandoci che la fusione della Sardaleasing con l’ABF Leasing, non sia stato, come a taluni di noi era parso, un grazioso e ricco cadeau al patrimonio della Bper, ma, al contrario, un chiaro vantaggio per il sistema creditizio isolano, e, ancora, che lo stesso passaggio alla rete Bper delle filiali di Milano, Genova, Parma, Livorno, ecc. abbia rappresentato una convenienza, e non una penalizzazione, per il Banco di Sardegna, avendone accentuato la sardità. Né è stato chiarito se l’ultimo “piano industriale” della Bper, che di fatto ha cancellato quel modello di “banca federale” (una sorta di holding-network di banche regionali) sostituendolo con una banca “ultracentrica”, abbia, o meno, trovato motivo di confronto-discussione con il vertice della Fondazione (purtroppo, il fatto che da quel piano industriale sia scaturito, con l’ultimo patto parasociale, un inasprimento del vassallaggio, porterebbe a credere che da Sassari non si si sia mossa osservazione alcuna).

Ma, viene da domandarsi, quale utilità ne può venire al Banco di Sardegna di un azionista-vassallo, che è ormai niente altro che una pedina in mano ad una Bper che ha disegnato per sé un futuro di medio-grande banca nazionale (competitor di Ubi, BPM, ecc.) con interessi prevalenti nel ricco Centro-nord del Paese? Ma, viene da aggiungere, la classe dirigente sarda (quella della politica, dell’economia e della cultura) può continuare ad assistere, con le mani in mano,  a queste vicende che riguardano – non bisogna dimenticarlo – uno degli assetts più importanti per le future azioni dello sviluppo imprenditoriale e della crescita economica dell’isola?

Ora, quel 49 per cento di azioni del capitale del Banco (esattamente 352.158.298,57 di euro) non è “cosa propria” della Fondazione, ma, essendo un “bene originario” di proprietà della comunità sarda, se ne dovrebbe rispondere del suo corretto utilizzo “ai soggetti espressione delle realtà locali” (cioè ai rappresentanti dei sardi). Se pur è vero, come avrebbe sostenuto lo stesso Giuliano Amato, autore con Guido Carli della legge istitutiva, che le Fondazioni si siano ormai trasformate, attraverso una serie di leggi di riforma, in dei “mostri giuridici”, e che la stessa Corte Costituzionale, chiamata nel 2003 a chiarire la natura pubblica o privata delle loro attività, si sia esercitata in un elegante equilibrismo di “non risposte”, si potrebbe non escludere – come sostengono diversi giuristi – che esse rimangano, nel concreto delle istituzioni chiamate a gestire, seppure con principi privatistici, un patrimonio che è esclusivamente pubblico, di proprietà della comunità originarie di riferimento. E del quale vanno chiamati a risponderne proprio ai legittimi titolari.

Questo perché, data l’origine dei loro patrimoni rivenienti da enti pubblici economici, ci si sarebbe attesi che la Consulta facesse chiarezza sulle molte perplessità sorte circa la reale loro natura, in modo da affermare criteri guida che sarebbero diventati limiti per l’intervento del legislatore sulle tematiche istituzionali, operative e funzionali delle medesime Fondazioni bancarie. La Corte Costituzionale ha, viceversa, ritenuto di non prendere posizioni nette sulla loro natura, ed ha assunto una linea altalenante, finendo per dare un’immagine di questi soggetti non legata ad una loro precisa configurazione giuridica.

Forse proprio per questo, nella “Carta delle Fondazioni” approvata all’unanimità il 4 aprile del 2012, è parso necessario definire alcune regole generali di comportamento a cui doversi attenere. Infatti, atteso che come Fondazioni bancarie si rappresenta “un bene originario delle comunità locali”, occorre impegnarsi a svolgere “la propria attività nell’esclusivo interesse generale delle comunità di riferimento, rispondendo del loro operato ai soggetti espressione delle realtà locali”.

Si è altresì stabilito che, “pur non ingerendosi nella gestione operativa della società bancaria di riferimento”, ma “esercitando i diritti dell’azionista”, si debba vigilare affinché la conduzione della società bancaria avvenga nel rispetto della sua solidità patrimoniale e del suo radicamento nel territorio.

Parrebbe quindi chiaro (a) che gli 886.472.448 euro del patrimonio della Fondazione BdS siano un bene originario di tutti i sardi e non dei suoi gestori pro tempore; (b) che della loro gestione se ne debba rispondere ai soggetti espressione della comunità sarda; (c) che vada esercitata un’attenta vigilanza, in quanto soci della società bancaria, affinché non ne vengano perduti, declassati o sottratti beni e valori patrimonialmente e strategicamente significativi.

Ci sarebbe quindi da domandarsi chi siano, nel concreto, i soggetti “espressione delle realtà locali” a cui dare conto degli andamenti gestionali. Non è facile individuarli, anche per l’indeterminatezza dell’indicazione. Ma può essere sostenibile – come a noi pare evidente – che il Consiglio Regionale, i Consigli Provinciali, le Università e le Camere di commercio, in quanto soggetti chiamati ad indicare, a nome della comunità sarda, i componenti degli organi di indirizzo, d’amministrazione e di revisione, siano proprio essi deputati a chiedere e ad ottenere le “risposte” sul buon uso del patrimonio come effettuato da parte della Fondazione.

Vorremmo infatti che non si continuasse, anche su questo tema e come è d’uso in Sardegna, a menare il can per l’aia, ma che attorno al Banco di Sardegna, alla Fondazione ed ai suoi rapporti con la Bper si sviluppasse un confronto, fondato sulla trasparenza e sulla chiarezza. Vorremmo che venisse sfatato quel che oggi viene detto in giro, d’essere la Fondazione in mano a lobby di politici (più o meno ex) e di modesti portaborse e di operare come sportelli di favori clientelari e di scambi d’influenze elettorali. Ma – viene infine da domandare – Antonello Cabras, che è riconosciuto come galantuomo e come politico d’esperienza e di tutto rispetto, può consentire tutto questo, facendo della Fondazione da lui presieduta una sorta di misteriosa loggia underground?

Paolo Fadda

 (amministratore del Banco di Sardegna dal 1968 al 1988)

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