Solo la Consulta potrà cambiare la strana legge elettorale sarda

Pochi lo sanno, ma la fantascientifica legge elettorale che ha provocato ansie e molti batticuore ai tanti candidati che hanno dovuto attendere quasi un mese per sapere se il loro biglietto era stato estratto alla lotteria del Consiglio regionale della Sardegna, è già di fronte alla Corte costituzionale. O meglio, di fronte ai giudici costituzionali, dall’ottobre del 2013, c’è una legge elettorale, quella della Regione Lombardia (l. n. 17 del 2012), che, per larga parte, è assolutamente identica alla legge elettorale della Regione sarda.

A decidere che la legge lombarda possedesse – come si dice in termini giuridici – i requisiti della “rilevanza e della non manifesta infondatezza” e che, quindi, dovesse essere sottoposta all’esame della Corte costituzionale è stato il Tar di Milano, al quale si sono rivolti alcuni elettori, i cui nomi in buona parte coincidono con coloro che avevano sollevato la questione di costituzionalità che ha provocato la dichiarazione di illegittimità costituzionale della legge elettorale nazionale, il cosiddetto Porcellum.

I punti del sistema lombardo ritenuti non conformi ai princìpi costituzionali e sottoposti al giudizio della Corte riguardano le modalità di elezione del Consiglio regionale e, in particolare, l’assegnazione del premio di maggioranza e le soglie di sbarramento, che, nella legge lombarda (e nella legge sarda), dipendono entrambi dai risultati conseguiti dai candidati alla presidenza della Regione e non da quelli ottenuti dalle singole liste.

Per quanto riguarda il cosiddetto “premio presidenziale”, i giudici amministrativi hanno messo in discussione la regola che (analogamente a quanto disposto dall’art. 13, secondo comma, della legge elettorale sarda) prevede che le liste collegate al presidente eletto si vedano assegnato, quale che sia il risultato, il 55% o il 60% dei seggi, a seconda che il presidente eletto abbia ottenuto meno del 40% dei voti, o una percentuale pari o superiore a questa.

Il secondo aspetto sottoposto al giudizio della Corte costituzionale riguarda la “soglia di sbarramento”, che dispone l’esclusione dalla ripartizione dei seggi consiliari e, quindi, dal cosiddetto “diritto di tribuna”, delle liste (provinciali) che non hanno ottenuto (nell’intera regione) almeno il 3% dei voti, a meno che siano collegate a un candidato presidente che ha ottenuto il 5% o più dei voti. In Sardegna i meccanismi di selezione risultano ancor più severi, considerato che dalla ripartizione dei seggi vengono esclusi: a) i gruppi di liste che fanno parte di una coalizione che ottiene meno del 10 per cento del totale dei voti validi ottenuti da tutti i gruppi di liste a livello regionale; b)  i gruppi di liste non coalizzati che ottengono meno del 5 per cento del totale dei voti ottenuti da tutti i gruppi di liste a livello regionale.

I meccanismi della legge lombarda (e, conseguentemente, della legge sarda) sono stati costruiti per assicurare che, nei processi di formazione dell’indirizzo politico regionale, prevalesse il risultato delle elezioni presidenziali su quelle consiliari, secondo un modello di forma di governo cosiddetta “neo parlamentare”, parzialmente già sperimentata a livello comunale (dove è però previsto un eventuale turno di ballottaggio fra i due candidati più votati), nella quale vige il principio dell’elezione diretta e contemporanea del presidente della Regione e del Consiglio regionale, abbinata al principio della majority-assuring, di un sistema, cioè, nel quale allo schieramento vincente è comunque assicurata una maggioranza assoluta di seggi consiliari, con premio certo ma variabile nella sua entità.

E’ stato fatto rilevare come le norme della cui costituzionalità si dubita si pongano “in sostanziale continuità” con le regole che, da tempo, governano il procedimento di formazione degli organi di governo delle Regioni, Sardegna compresa. Le differenze che hanno provocato le contestazioni, i ricorsi ed il conseguente rinvio della legge lombarda alla Corte costituzionale sono soprattutto la conseguenza della soppressione del cosiddetto “listino”, che consentiva ad un certo numero di consiglieri (ricordate l’igienista dentale Nicole Minetti?) di essere eletti senza partecipare alla competizione elettorale, e della riduzione del numero complessivo di consiglieri regionali, che, in Sardegna, sono passati da 80 a 60.

Queste due cause e la volontà di autotutelarsi del sistema dei partiti hanno portato alla composizione di un Consiglio regionale della Sardegna nel quale, insieme alle donne (4 su 60), non trovano rappresentanza, o sono quasi del tutto esclusi, movimenti che hanno raggiunto quasi il 10% del voti e importanti parti del territorio regionale che vedono ridotti a meno della metà i loro rappresentanti.

Questa situazione, che ha diminuito in maniera drammatica il livello della democrazia rappresentativa del corpo elettorale della Sardegna, non è cioè frutto del caso ma è invece la conseguenza, cinicamente e spregiudicatamente perseguita, di una tecnicalità giuridica voluta dai gruppi di potere che, con poche eccezioni, hanno co-governato il Consiglio regionale nell’ultima legislatura.

Messi di fronte alla necessità di scrivere una nuova legge elettorale e terrorizzati dalla possibilità di essere scacciati dal Consiglio regionale per il successo di nuovi movimenti, hanno costruito un sistema elettorale con un unico ed esclusivo obiettivo: realizzare un meccanismo che garantisse e confermasse la presenza nell’assemblea legislativa del sistema dei partiti e dei suoi rappresentanti, in molti casi assolutamente impreparati ad affrontare una vita priva dei privilegi che la carica di consigliere regionale porta con sé.

Se si condivide questo giudizio, è sbagliato e velleitario immaginare e credere, come fanno in molti, che il nuovo Consiglio regionale sia in grado di costruire una legge elettorale che garantisca alle minoranze politiche, ad entrambi i generi ed a tutti i territori regionali il diritto di essere rappresentati adeguatamente nell’Assemblea legislativa e dalla quale sia allo stesso tempo cancellato un premio di maggioranza assolutamente sproporzionato ed in contrasto con i princìpi sanciti dalla Corte costituzionale a proposito delle legge elettorale nazionale.

Nessuno, e meno che mai l’attuale nomenklatura partitica, è, infatti, disposto a rinunciare di sua spontanea volontà a cinque anni di agi e comodità, come dimostra la fortissima competizione, giocata quasi del tutto sul piano personale, della campagna elettorale.

Per essere chiari e senza false illusioni, oggi, la sola strada per eliminare dall’ordinamento della Regione norme ingiuste e, soprattutto, incostituzionali sotto diversi profili è quella del ricorso giurisdizionale, che porti l’attuale legge elettorale di fronte alla Corte costituzionale, così come è accaduto in Lombardia e, prima ancora, per la legge elettorale nazionale, che il sistema dei partiti mai avrebbe cambiato se non fosse intervenuta una dichiarazione di incostituzionalità.

Visti i precedenti, è probabile che anche il Tar Sardegna, una volta esaminati i tanti ricorsi che da più parti si stanno preparando, opterà per il rinvio della legge elettorale sarda alla Corte costituzionale, la cui decisione avverrà presumibilmente nel giro di un paio d’anni.

Difficile ipotizzare quale possa essere il destino delle norme non solo della Lombardia e della Sardegna ma anche delle molte altre regioni che hanno adottato, con poche varianti, lo stesso modello di legge elettorale. Sarà la Corte costituzionale a decidere se l’eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale renda necessarie nuove elezioni con nuove regole o se, viceversa, sia sufficiente modificare la composizione dell’attuale Consiglio regionale, sostituendo quei consiglieri regionali eletti sulla base di norme dichiarate costituzionalmente illegittime.

Ciò che è certo è che il cambiamento delle regole elettorali può avvenire solo attraverso un’iniziativa politico-giudiziaria assunta da tutti coloro che, pur appartenendo a orientamenti politici lontani fra loro, pretendono che i processi attraverso cui si manifesta e trova espressione istituzionale la sovranità popolare siano disciplinati da regole e princìpi che rilegittimo la rappresentanza politica, che garantiscano a tutti i partecipanti uguali condizioni di partenza e di partecipazione e che, nel contempo, prevedano quelle azioni positive che sappiano garantire quella “democrazia paritaria” ai generi ed ai territori finora mai rispettata.

Fulvio Dettori

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