Chi ha un lavoro stabile ha il dovere di combattere la precarietà

Mi ha telefonato mia cugina, che vive a Bergamo da molti anni e fa l’insegnante. Felice, agitata, quasi commossa, mi ha detto che dopo ventidue anni e nove mesi di esistenza precaria ha ricevuto la comunicazione dell’assunzione: diventerà un’insegnante della scuola pubblica con contratto a tempo indeterminato. Continuerà quindi a fare lo stesso lavoro, nello stesso modo appassionato, a volte smisurato, di cui sono capaci molte lavoratrici e lavoratori (stabili e precari), ma sarà diverso. Un lavoro stabile cambia le cose, non è una questione psicologica, è la vita quotidiana che assume una solidità che prima non aveva, un margine di sicurezza cruciale per chi – come dice Maurizio Landini – per vivere deve lavorare.

Nella mia famiglia scomposta ci sono tre madri sole con figli (un figlio maschio ciascuna). Sono donne solide e determinate, hanno dovuto cavarsela da sole (con padri assenti in ogni senso fin dai primissimi anni di vita dei figli) e ci sono riuscite, con grandi preoccupazioni e fatiche, e la loro risorsa fondamentale è stata il lavoro. Dal lavoro hanno ricavato ciò che serve, ma spesso non basta, per pagare una casa in affitto, la luce, l’acqua, il cibo, i vestiti, la benzina e l’assicurazione della macchina, le visite mediche e i farmaci, e il resto. Qualche volta hanno avuto bisogno di un aiuto, come accade in tante famiglie, ma senza un lavoro continuativo e poi stabile non so come avrebbero potuto avere l’autonomia di costruire la loro vita con i loro figli.

Faccio parte di quelli che hanno un lavoro stabile e sono contenta di averlo, credo sia una fortuna, a cui volendo si può sempre rinunciare, ma intanto si può andare in ferie senza il pensiero buio di un lavoro che dopo l’estate forse non ci sarà e chissà per quanto ancora mancherà. Sono tra quelli che hanno un lavoro stabile e ricordo benissimo il momento in cui è iniziato, perché è stato un passaggio importante, a 43 anni, dopo 17 anni di collaborazioni e contratti a termine. Ricordo bene che cosa è cambiato: prima di tutto potermi sentire a pieno titolo parte dell’organizzazione e avere la certezza dello stipendio e dei contributi previdenziali ogni mese, ma anche poter smettere di cercare, di offrire e chiedere come se fosse un favore.

Conosco molte persone che hanno un lavoro stabile ma hanno dimenticato tutto quello che hanno fatto per averlo (compreso passare sopra a qualcuno) e quanto è stata pesante e incerta l’attesa. A questa categoria di persone immemori, che osservano con distacco chi è precario e non riescono ad immedesimarsi nell’urgenza della loro condizione, si aggiunge qualcuno più vile degli altri che si permette perfino il vezzo indecente di trattare con sufficienza il proprio lavoro stabile, guardandosi bene dal lasciarlo, naturalmente. E poi ci sono quelli che hanno un lavoro stabile e predicano l’instabilità degli altri, ma non ne ho mai visto uno lasciare il proprio posto. I politici, i ministri che hanno smontato pezzo per pezzo il lavoro stabile negli ultimi trent’anni, senza creare niente di più né di meglio – da D’Alema a Maroni, da Ichino a Sacconi – lo hanno fatto dalle loro solidissime posizioni.

Sono tra quelli che hanno un lavoro stabile e vorrebbero che lo avessero anche gli altri, perché l’aspirazione alla sicurezza del lavoro e del reddito non solo è legittima ma anche costruttiva, consente di costruire la vita, di progettare, guardare lontano senza troppa paura e quindi con più libertà (mentre l’instabilità, la discontinuità, l’intermittenza del lavoro e del reddito sono distruttive, a meno che non si appartenga alla categoria di coloro che non devono lavorare per vivere, ma io non ne conosco). Solo dentro la stabilità del lavoro si può sperimentare la vera flessibilità, che non è la libertà di licenziare ma la libertà di lavorare meglio, di produrre risultati migliori per sé e per gli altri, in ogni campo.

Questa è l’urgenza che dovrebbe essere percepita e perseguita da chi ha un lavoro stabile e ha anche uno spazio di scelta e di responsabilità individuale o istituzionale: sottrarre ogni giorno qualcuno alla precarietà del lavoro e della vita.

Lilli Pruna

 

 

Lilli Pruna

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