C’è un piano per fare “scomparire” il Banco di Sardegna?

La scomparsa del Banco di Sardegna la si dovrà addebitare ad un’iniziativa dei banchieri modenesi della Bper o ad una velata aspirazione dei politici isolani oggi a capo dell’omonima Fondazione? Si tratta di una domanda intrigante, ma che ripropone l’esigenza di capire chi c’è dietro il progetto d’incorporazione del Banco di Sardegna spa nella Banca Popolare dell’Emilia Romagna. Infatti, a dar retta agli insistenti rumors finanziari, la realizzazione si troverebbe in una fase ormai vicina ad una decisione finale. Che, peraltro, sembrerebbe presentare non poche difficoltà.

Vi è quindi l’esigenza di riuscire a comprendere (o almeno ad immaginare, visto il silenzio dei protagonisti) chi abbia lanciato l’idea: se cioè la proposta sia partita da Modena o dal quartier generale della Fondazione, qui in Sardegna. O, più semplicemente, se l’incorporazione sia più utile alla Bper od all’istituzione presieduta da Antonello Cabras.

Le ipotesi avrebbero ambedue, almeno sulla carta, buoni margini di credibilità, anche se noi di Amsicora propendiamo per un’iniziativa nata e immaginata in quel di Sardegna. E questo per una valutazione assai semplice, in quanto oggi la Bper è di fatto la “padrona assoluta” del Banco, visto che si è tutelata con un patto parasociale che rende l’altro socio succubo e suddito delle sue volontà, per cui non avrebbe interesse alcuno ad un assorbimento (tra l’altro, avendone di recente esternalizzato a Modena anche la valutazione ed il controllo dei crediti e le funzioni ispettoriali, oltre che la sudditanza al piano industriale della capo gruppo, ne ha di fatto evirato ogni autonomia, trasformandolo in una propria succursale).

Per contro la Fondazione, con il cambio del vertice (da Arru a Cabras), avvenuta pochi mesi or sono, potrebbe aver interesse a voltare decisamente pagina. Infatti, l’ex senatore Antonello Cabras ha ereditato un ente somigliante – per parafrasare una celebre definizione di Cesare Merzagora sulla “Bastogi” degli anni ’60 – ad una “gallina dalle uova di pietra”. Cioè, per meglio chiarire la similitudine, un’istituzione con l’intero patrimonio pietrificato in partecipazioni (talune delle quali peraltro incongrue ed oscure) dal rendimento precario ed assai modesto, oltre che difficilmente smobilizzabili, senza andare incontro a probabili perdite.

In più, quasi il 40 per cento è costituito dalle azioni della società bancaria, che nell’ultimo biennio hanno prodotto utili per soli 2,6 milioni di euro (poco più dello 0,3 per cento); una partecipazione che, al di là del prestigio dato dalla poltrona di presidente e da cinque sedie di consigliere (tutte prive di effettivo potere), non concede nulla in tema di influenza sulle decisioni strategiche (il caso dello scippo della Sardaleasing appare assai emblematico).

Quindi, per poter liberare quei circa 350 milioni di euro oggi “fermi” in azioni del Banco, l’unica strada possibile, e percorribile, potrebbe essere solo quella di offrirle alla Bper in concambio con sue azioni ordinarie, dato che a Modena in fatto di liquidità si è sempre molto carenti. Non dimenticando che le azioni Bper sono quotate in borsa e, quindi, avrebbero la possibilità di poter essere esitate. Permettendo così di utilizzarne il ricavato per ricercare investimenti più remunerativi ed audaci.

Proprio su questa strada, se le nostre supposizioni hanno fondamento, si sarebbe mosso il presidente Cabras per sondare gli umori dei soci emiliani (sarebbe poi questa la strada seguita, se le informazioni da noi raccolte in quel di Modena le si ritengano attendibili, e che poi troverebbe conferma anche su quanto apparso nelle pagine economiche de L’Unione Sarda il 27 luglio scorso, prospettante – un “ballon d’essai”? – il pensiero di Cabras di non ritenere conveniente la partecipazione nel Banco e di volersene liberare “in modo da far crescere la redditività” delle partecipazioni).

Per maggiore precisione, va ricordato che il capitale sociale del Banco di Sardegna (di nominali 155.247.762 euro) è costituito:
da 43.981.509 azioni ordinarie da 3 € ciascuna, di cui il 49% in mano alla Fondazione,
da 1.167.745 azioni privilegiate anch’esse da 3 € ciascuna, di cui il 38,1% in mano alla Fondazione,
da 6.600.000 azioni di risparmio da nominali 3 € ciascuna, quotate in borsa (oggi varrebbero circa 11/12 €) di cui la Fondazione ne detiene soltanto lo 0,38%. (il restante 99,62 è in mano a terzi).

Per essere precisi, attualmente la banca modenese ha in mano il 44,5% del capitale totale del Banco (ivi comprese quelle “minorities” sul mercato), per cui dovrebbe incorporarne il restante 55,5%, superando la mina vagante di quelle azioni “di risparmio”.
Occorre ancora aggiungere che nel bilancio della Fondazione la partecipazione sul “Sardegna” viene valutata in 352.158.298,57 euro, pari al valore di conferimento (circa quattro volte più del nominale), ma, viene precisato, tale valore risulterebbe inferiore al valore complessivo del “patrimonio netto”, come indicato dallo stesso Banco nel suo ultimo bilancio (1.146.743.988, per cui quel 49% andrebbe stimato in effettivi € 561.904.554,12, più 59,5%).

Per poter dare altre utili informazioni, si precisa che le azioni della Bper hanno ora un valore in borsa attorno ai 6,10/6,15 (ma negli ultimi sei mesi hanno perso valore, da un massimo in aprile di 8,86 €) per cui una emissione di 56 milioni di nuove azioni (che, secondo un analista finanziario, basterebbero per acquisire il 49% in mano alla Fondazione) varrebbero oggi, più o meno, 340 milioni, cifra inferiore allo stesso valore contabile della partecipazione, ed al netto del valore delle azioni di risparmio.

Ci sarebbe quindi, problema non semplice, l’acquisizione di queste azioni, oggi nella quasi totalità in mano al mercato, per cui occorrerebbe dar vita ad un’OPA (offerta pubblica d’acquisto), o ad un’altra operazione swap utilizzando azioni ordinarie Bper. Va tenuto comunque presente che ogni azione di risparmio vale in borsa, più o meno, il doppio d’una azione Bper: in tutto sono circa 72/75 milioni di euro. Non pare dunque un percorso facile, anche se preoccupa la disinvoltura con cui quest’operazione è stata messa in giro (il mercato borsistico l’avrebbe poi male accolta, dato che alla prima indiscrezione circolata fra le “corbeille” di piazza Affari il titolo Bper ha perso il 3,5%, mentre hanno guadagnato punti le azioni di risparmio!).

Secondo un esperto di affari finanziari (peraltro molto vicino alla banca emiliana), un’ipotesi di concambio fra le azioni dei due soggetti interessati, potrebbe essere quella di partire dal «rapporto del “book value” per ogni azione del Banco di Sardegna e della Bper, rispettivamente di 23,9 e di 12,3». L’ipotesi determinerebbe un rapporto di swap di 1:2, «il che prevederebbe l’emissione di circa 56 milioni di nuove azioni ordinarie Bper, determinando l’aumento del capitale di quest’ultima dagli attuali 479 ai 536 milioni». Ipotesi che, visto il valore attuale del titolo Bper, francamente non sarebbe ipotesi molto conveniente per la Fondazione!

Ma c’è un altro possibile ostacolo che, a parere degli esperti, potrebbe vanificare il progetto di Cabras di poter smobilizzare l’investimento bancario per andare in cerca di partecipazioni più lucrative e più stimolanti. Infatti, non può che darsi per certo che alla consegna alla Fondazione dei 56 o più milioni di azioni ordinarie, la Bper imporrebbe l’impegno tassativo a non cederle per un numero tot di anni, per evitare una caduta verticale del titolo, che diventerebbe drammatica per la difesa dell’asset patrimoniale di una banca, ora sotto stretta osservazione da parte della BCE di Mario Draghi.

Quella partecipazione nel capitale Bper non darebbe poi alcun potere, dato che, per via della regola del “voto capitario”, ogni socio ha diritto ad un voto indipendentemente dalle azioni possedute. E la Fondazione diverrebbe, pur con il suo 12-15% del capitale, niente più che uno degli 88.110 soci di quella “Popolare”.

Quali obiettivi si sarebbe proposto quindi chi ha pensato questo percorso? Certamente quello di poter far uscire la Fondazione dall’immobilismo degli ultimi sette/otto anni, proiettandola verso un ruolo interventista, e non solo garantista, in modo da poter meglio valorizzare le proprie disponibilità patrimoniali.  Ma in realtà è alto il rischio di finire in una strada senza sbocco, in quanto la Fondazione non potrà che rimanere azionista di una banca, seppure di diversa denominazione e di differente natura, dimensione e territorialità. Con tutte le alee che di questi tempi vanno correndo banche come la Bper, dal patrimonio fragile, dal cammino incerto e dalla redditività molto aleatoria. Sempre che – è bene sottolinearlo – l’ipotizzato swap possa essere effettivamente realizzato, visto che, a parere di molti esperti, ci sarebbero ostacoli difficili da superare per poter giungere all’incorporazione (con i portatori di quei 6,6 milioni di azioni di risparmio a formarne l’ostacolo maggiore).

Comprendiamo, nel redigere queste osservazioni, che si è dinanzi ad un tema complesso, ed anche ostico, più consono ai lettori del Financial Times che di un giornale di divulgazione politica, per cui, pur con queste difficoltà, si cercherà di far capire che si è di fronte ad un’operazione che la si riterrebbe nociva agli interessi della comunità sarda esclusiva titolare del patrimonio della Fondazione, a cui, Cabras & C. sarebbero poi chiamati a dover rispondere. Non sono infatti da sottovalutare le critiche messe in giro da più parti, su un’operazione definita solo speculativa e messa in piedi sulla testa, ed in barba, a tutti i sardi. Perché la sparizione delle insegne del Banco di Sardegna rappresenterebbe un vero e proprio vulnus alla nostra organizzazione creditizia, oltre che una bruciante sconfitta per la storia economica della nostra isola.

Il tema centrale di quest’operazione non può quindi che essere politico. A cui andrebbe data una risposta anch’essa politica. Cioè attinente all’organizzazione del credito in una regione dall’autonomia speciale come la Sardegna. Ci sarebbe quindi un nodo da sciogliere, un problema da affrontare, una vigilanza da attuare: che riguarda direttamente la Fondazione. Se la si debba ritenere un’istituzione di diritto privato (che possa fare, cioè, quel che vuole), o se, imbottita com’è di politici e politicanti, debba essere considerata – come sarebbe doveroso – uno strumento, seppure improprio, da porre sotto l’attenzione e la vigilanza della politica regionale.

Noi di Amsicora quel nodo lo abbiamo sciolto. Perché il suo presidente Cabras è personaggio autorevole della vita politica isolana (ex presidente ed ex assessore della Giunta regionale, ex senatore, etc …), tuttora direttamente impegnato nel partito di maggioranza, di cui – a leggere i giornali – sarebbe uno dei leader e dei protagonisti più potenti. È quindi un autorevole esponente “attivo” del partito del presidente Pigliaru e dell’assessore Paci, le due figure istituzionali a cui dovrebbe essere affidata la predisposizione e la tutela della politica del credito nella loro e nostra Sardegna. La Fondazione è quindi sotto la guida di un esponente politico di parte, nonostante il disposto legislativo imponga l’incompatibilità/discontinuità tra incarichi politici elettivi o di partito, in modo da eliminare ogni commistione con partiti, movimenti o gruppi riconducibili alla sfera politica.

Dunque, esistono buone ragioni per ritenere che la Fondazione sia, allo stato attuale delle cose, uno strumento in mano alla politica regionale, per cui non può che essere quella stessa politica regionale a vigilarne l’attività, non nascondendosi dietro la “foglia di fico” di una sfera privata incongrua, ambigua e, di fatto, inesistente ed inaccettabile.

Ora, visto che la guida della politica regionale è sotto la guida del Pd, non è certo provocatorio chiedere a quel partito, ed in particolare agli uomini che quel partito ha espresso come guida della Regione, se sian o d’accordo, o se siano addirittura divenuti coattori d’una operazione volta a far sparire il Banco di Sardegna, disperdendo così tutti i suoi valori patrimoniali, identitari e sociali realizzati in oltre 40 anni di lavoro a favore dell’economia dell’isola; che lo si voglia barattare, quasi fosse niente più che dei “mojus de trigu de Atzara” o delle “carradas de binu d’Ogiastra”, come ai tempi tristi dei viceré stranieri; che lo voglia quindi utilizzare come pedina per un’operazione finanziaria disinvolta ed antistorica, riportando così la Sardegna indietro nel tempo, prima dell’alba della sua autonomia statutaria. Dimentichi ancora di quel forte grido d’allarme che il vecchio e saggio senatore Giuseppe Musio aveva rivolto al suo re, nel 1847, perché, privati di una loro banca, i sardi sarebbero rimasti sempre degli schiavi del regno, poveri e sfruttati sudditi di un potere economico avverso e vessatore.

Ma la sparizione definitiva del Banco di Sardegna, come istituto di credito autonomo al servizio della società isolana e della sua economia, è proprio nei programmi e nelle volontà del Pd odierno, dei suoi iscritti e dei suoi dirigenti? Hanno quindi messo da parte le grandi lezioni autonomistiche di uomini come Renzo Laconi, Emilio Lussu, Paolo Dettori ed Umberto Cardia, di cui sarebbero gli eredi, e questo per un pacchetto di favori clientelari o, magari, per potersi sentire dei “tycoons alla George Soros” in salsa sarda?

Amsicora

 

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