Carlo Mannoni: Ecco perché, professor Paci, non ci si può rassegnare allo spopolamento

Leggo che il vicepresidente della Regione, il professor Paci, ha recentemente svolto, ad Austis, una lezione di sociologia applicata all’economia sullo spopolamento dei piccoli comuni. Forse dimenticandosi di essere, oltreché professore universitario di economia, anche rappresentante istituzionale della Regione, il professor Paci ha sostenuto che lo spopolamento di numerosi comuni in Sardegna è un fenomeno ormai acquisito, definitivo e fisiologico. Pertanto i servizi andranno riconosciuti solo dove ci sono i numeri, ovvero gli abitanti, per cui, come ha riassunto su Facebook Lucia Chessa, ex sindaco di Austis, “Basta con la mera rivendicazione di servizi. I servizi non creano popolamento, i servizi vanno fatti dove c’è gente che li utilizza”.

A commento delle affermazioni del professor Paci riporto un mio intervento del 30 agosto 2011 su Sardegna 24, a commento del decreto legge del governo Berlusconi che prevedeva l’accorpamento dei comuni sotto i 1000 abitanti, che oggi titolerei “Il ragionier Rossi e i piccoli comuni”. Mutatis mutandis, la filosofia di fondo sui piccoli comuni mi pare la stessa. Ecco quanto scrissi.

Mi è capitato qualche volta, percorrendo la via in cui abito a Cagliari, di calcolare il numero delle persone che vi risiedono. L’ho fatto non per mero esercizio matematico ma per la curiosità di conoscere un dato che mi desse il pretesto per un ragionamento sul rapporto tra popolazione e territorio in Sardegna. Siamo infatti così pochi in una terra tanto vasta, e quei 69,5 abitanti per kmq, che rappresentano la nostra bassissima densità abitativa, costituiscono una forte diseconomia che la Sardegna paga in termini di maggior costo nella vita di relazione dei i suoi territori, nella realizzazione delle infrastrutture e nella gestione dei pubblici servizi.

Nella mia via risiedono circa 600 abitanti, più o meno quanti quelli di un piccolo comune come Escolca, Giave, Banari, Ula Tirso e Ussassai. Gli abitanti di questi comuni sono però un campione sociale equivalente a quello cittadino solo in termini numerici. Nel loro paese essi costituiscono, infatti, una vera comunità ed hanno col territorio un rapporto forte e indissolubile. In quanto comunità hanno inoltre una loro storia, tradizioni e cultura peculiari e per la cura e la gestione dei beni comuni si avvalgono degli ordinari strumenti di democrazia: sindaco, giunta e consiglio comunale. Tutte caratteristiche che il campione demografico della città possiede solo se unito alle altre “cellule” urbane, assieme alle quali costituisce la comunità cittadina.

Eppure per il nostro governo, dopo il recente decreto legge sui conti pubblici, gli abitanti di quei comuni sono solo una espressione numerica, un campione demografico svuotato dei suoi contenuti essenziali che lo connotano come “comunità”. Come una delle tante vie del capoluogo della nostra Regione. Il “ragionier Rossi” infatti, calcolatrice alla mano, ha deciso che per tagliare i costi pubblici non c’é di meglio che ridurre drasticamente la rappresentanza politica di 118 comuni sardi, quelli con popolazione inferiore ai mille abitanti. Per ottenere un risparmio di 250.000 euro annui via quindi i 1500 amministratori tra assessori e consiglieri comunali, dato che in quei comuni non ci saranno più né giunte né consigli comunali ed essi, accorpati nelle “unioni municipali”, verranno retti da “sindaci-podestà”, come qualcuno li definisce.

La proposta rivela una certa idea delle istituzioni da parte del governo. Che più o meno ragiona così. C’è lo spopolamento nei comuni minori? Basta accorpare, accorpare e poi accorpare ancora. Si accorpano gli abitanti per fare numero, così lo spopolamento si nota di meno. Poi ancora gli uffici postali, le scuole, i centri di assistenza sanitaria, e tutto ciò che è pubblico. Il “ragionier Rossi” è freddo nel fare i suoi calcoli: se potesse quei piccoli comuni li chiuderebbe pure, tanto fanno in tutto appena 70.000 abitanti. D’altronde l’indice di concentrazione della popolazione che in Sardegna è passato dallo 0,55% del 1951 allo 0,68% del 2010 sembra dar ragione ai suoi freddi calcoli che vorrebbero interi territori praticamente chiusi e tolti dalla contabilità sociale. Per essere più accorpati, più concentrati e con una densità abitativa più elevata, e quindi più felici”.

Questo il mio articolo dell’agosto 2011. Aggiungo appena, nel 2016, che se in una legislatura regionale si riuscisse ad approntare e far partire nel concreto significativi interventi per contrastare lo spopolamento dei comuni più a rischio di desertificazione, questa sarebbe una legislatura da considerarsi proficua.

Carlo Mannoni

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