Il “caos” di Quartucciu e lo scontro tra la provincia e il mondo

E’ definitivo: si è trattato di “caos“. Così, a quattro giorni dalla rissa tra il direttore del centro commerciale Le Vele di Quartucciu e tre venditori ambulanti senegalesi, il quotidiano di Cagliari pare aver concluso la tormentata ricerca della parola giusta per definire l’increscioso episodio. Non più, dunque, “guerriglia” (come il primo giorno), né “raid” (come il secondo giorno), né “gazzarra“, e nemmeno “finimondo“. Ma una parola breve, di quattro lettere, antichissima. (“All’inizio fu il caos” Esiodo, Teogonia).

Avevamo annunciato ai lettori il proposito di seguire questo appassionante dramma giornalistico, per cui non possiamo esimerci dal rilevare che – a pagina 35 – vi torna, nella rubrica delle lettere, l’autore dell’editoriale di mercoledì scorso. Quello che si apriva col curioso preannuncio: “Non sarò politicamente corretto”.  Lo fa indirettamente, rispondendo alla lettera di una lettrice che introduce nel dibattito una nuova parola grossa: “apartheid“. Precisamente “apartheid al contrario“.

L’apartheid fu il regime di segregazione razziale vigente in Sudafrica dal 1948 al 1989 quando la liberazione di Nelson Mandela ne segnò la fine. La “apartheid” – al centro commerciale Le Vele – è “al contrario” perché là i “bianchi” sono “confinati dentro la riserva delle meraviglie”, mentre i “neri” sono “preferibilmente fuori”.Questa situazione, scrive la lettrice, scatena un conflitto interiore: tutte le volte si tratta di decidere tra “il gesto pietoso di un’elemosina” e la “forte ribellione contro invadenti pretese”.

La sorpresa è poche righe dopo. La lettrice, infatti, racconta di aver “preso un aereo” e di essere giunta in un luogo felice, dove non vige questa “apartheid al contrario”: “Che meraviglia! Che libertà! Nessuno da queste parti mi chiede nulla nei parcheggi del supermercato”. Purtroppo il luogo non è indicato. Ma possiamo fare qualche ipotesi e prima di tutto collocarlo fuori dai confini nazionali e forse europei. Infatti “coloro che avrei creduto di vedere fuori (i neri, ndr) sono dentro con me (la bianca, ndr) a fare la spesa”. Sembrerebbe la descrizione della vita quotidiana in un market di New York. Chissà.

Ma che c’entra tutto questo col centro commerciale Le Vele? Niente. E’ solo la premessa per lanciare la proposta delle “cose sospese“. Scrive ancora la lettrice: “Non sarebbe meglio, per i direttori dei centri commerciali e per una comunità che si proclama civile, lasciare delle cose sospese e sparse per tutti i negozi sia dei centri, sia delle città, in modo che coloro che sono rimasti fuori possano mettere un piede dentro la vita?”.

Le “cose sospese” sono gli oggetti che si comprano ma non si ritirano, lasciandoli a disposizione di altri che possono averne bisogno. In qualche bar si lasciano i “caffè sospesi”. In pratica, sembra di capire, per porre fine alla “apartheid al contrario” sarebbe sufficiente che i clienti delle Vele lasciassero “in sospeso” qualcosa (“Un maglione sospeso, una spesa sospesa, un biberon sospeso, un panino sospeso e, perché no, un libro sospeso”) e così i venditori ambulanti, anziché tormentare i clienti nel parcheggio, entrerebbero nel centro commerciale e, magari accompagnati dal direttore col flacone di gas urticante in tasca, andrebbero dai negozianti a domandare: “C’è qualcosa in sospeso per me?”. Così metterebbero “un piede dentro la vita”.

Un’idea romantica quanto balzana. Lo fa notare, con garbo, anche il titolare della rubrica delle lettere. Il quale, dopo qualche parola di apprezzamento sull’atto di solidarietà che si compie lasciando “cose in sospeso”, osserva: “Non penso, tuttavia, che possa bastare ciò a risolvere le tensioni latenti nei parcheggi cagliaritani dove la gestione dell’ordine pubblico è diventata problematica. A dispetto di chi fa finta di non vederlo e preferisce affibbiare patenti di ‘razzismo’ con noncuranza, sentendosi (a quale titolo?) moralmente superiore”:

Ah, ecco. Questo era il punto: il “razzismo“. Ci sono svariate tecniche per eludere un problema e non riconoscere un errore. Una di queste tecniche prevede la deformazione degli argomenti critici e la loro trasformazione in offese inaccettabili. Con l’obiettivo di volgere il confronto in rissa e quindi, di evitarlo. Non risulta che il quotidiano di Cagliari per la trattazione della notizia del “caos” a Le Vele, sia stato accusato di “razzismo” da alcuno. Se qualcuno l’ha fatto (ma chi?) certamente ha sbagliato. Perché in questa vicenda il razzismo non c’entra.

Il razzismo è un atteggiamento ostile e violento contro il diverso. Qua non c’è alcun atteggiamento violento. C’è, piuttosto, una trattazione esagerata e fuorviante di una notizia, con l’utilizzo di termini contraddittori, e con la decontestualizzazione di un problema comune a tutte le città italiane. Non “razzismo”, dunque, ma poco responsabile approssimazione. Che, quando viene da un organo d’informazione diffuso e influente, non aiuta la crescita della comunità cui quell’organo di informazione si rivolge. Che è formata da tutti quelli che vivono in quel luogo: cittadini italiani, cittadini europei, cittadini extracomunitari.

Le reazioni che suscitano le notizie di cronaca, in particolare di cronaca nera, che coinvolgono i migranti, rivelano che una parte rilevante della popolazione (non solo a Cagliari, un po’ ovunque) ignora alcune nozioni fondamentali. Non sa per esempio che molti dei migranti hanno il diritto, sancito dalla Costituzione e dai trattati internazionali, all’ospitalità da parte nostra. Sono quelli che hanno lasciato il loro Paese perché vittime di persecuzioni originate dalle loro idee politiche, dall’etnia, dal sesso. Si tratta dello stesso diritto che – riconosciuto per esempio dalla Francia e dall’Inghilterra agli italiani – consentì a Emilio Lussu e a Sandro Pertini di sottrarsi alle persecuzioni fasciste.

La xenofobia, come ha scritto con estrema chiarezza Luigi Manconi, non va confusa col razzismo: la paura del diverso è innata nell’uomo. Perché non degeneri in razzismo è necessario creare le condizioni per una convivenza serena tra etnie e culture diverse. E’ un problema che tutte le società evolute hanno affrontato e ostanno affrontando. Richiede lucidità, senso di responsabilità, competenza. Richiede anche disponibilità al confronto all’interno delle professioni. Richiede, in definitiva, un atteggiamento culturale laico e moderno. Il problema, qua, non è lo scontro tra i cagliaritani e i senegalesi. E’ lo scontro tra la provincia e il mondo.

G.M.B.

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