Cagliari e il mistero della borghesia scomparsa

Tra meno di un anno i cagliaritani andranno alle urne per eleggere il sindaco. La campagna elettorale -ovviamente non quella ufficiale, ma quella “sostanziale” che viene organizzata con grande anticipo nei palazzi che contano- è già cominciata. Ma la città ha un suo progetto di futuro? E a chi spetta elaborarlo, o se già estite, portarlo avanti? L’economista Paolo Fadda -che è anche uno storico della città di Cagliari- con l’articolo che pubblichiamo pone un problema e a lancia un dibattito. In passato Cagliari ha avuto nella borghesia il motore del proprio sviluppo (e lo sviluppo del capoluogo per forza di cose coincide con lo sviluppo dell’isola). Ma ora, scrive Paolo Fadda, quella borghesia non esiste più. Né, pare, che altri l’abbiano sostituita.

 

Ma vi sono ancora tracce (seppure ne esistano ancora) di quella borghesia illuminata e virtuosa che, per oltre un secolo, aveva fatto di Cagliari una vera città moderna, ricca di attività e di iniziative, e che l’aveva guidata a divenire un fertile laboratorio di progresso? È una domanda che si sente di dover fare nell’assistere al triste ed amaro declino, ad esempio, di un’istituzione storica come la Camera di commercio (un tempo importante cenacolo di idee per lo sviluppo imprenditoriale) od ai prolungati silenzi delle nostre associazioni datoriali, quasi rassegnate di fronte alla loro messa in disparte, da parte di un esuberante ed invadente “para-ambientalismo anti-progressista”. Quasi nella supina accettazione della perdita della centralità dell’industria come strumento per assicurare la crescita economica e per dare soluzione alla incalzante domanda di lavoro di tanti nostri giovani.

 

Sembra che siano scomparse del tutto le tracce esemplari e le eredità ideali di quella great generation cagliaritana dei Pernis, dei Capra, degli Scano, dei Contivecchi, dei Trois e di quant’altri avrebbero ideato e realizzato quella Cagliari del lavoro e delle attività, divenuta così traino per il progresso dell’intera isola. Lasciando che si imponesse il ritorno ad una immaginaria, e mai storicamente esistita, civiltà aurorale d’impronta agropastorale, lastricata peraltro – come ben si sa – di miserie, insalubrità e travagli.

 

Così, anche le neo-borghesie urbane (soprattutto quelle d’estrazione politica ed intellettuale) paiono essersi convertite agli stessi valori d’un antiprogressismo d’abord, dalle forti connotazioni antindustriali, trovando anche eco e consenso in molti organi d’informazione. Parrebbe diminuita, se non del tutto scomparsa, un’acculturazione civica, cioè la capacità di pensare alla città come luogo per diffondere conoscenze ed innovazione, oltre che come strumento necessario per far crescere e migliorare le proprie performance imprenditoriali. Parafrasando un concetto caro al sociologo De Rita, si potrebbe ritenere di trovarsi di fronte ad una borghesia cittadina che si è fatta “borghigiana”, con ciò intendendo che, perdute o dimenticate le eccellenze urbane, ad iniziare dalle sue élite di comando della politica come dell’economia e della pubblicistica, siano emersi, divenendo premianti, i disvalori d’una cultura sempre più bidduncula.

 

Ci si rende conto che non è un discorso facile, dato che investe molta contemporaneità e che, inevitabilmente, potrà toccare anche suscettibilità e sensibilità diverse. Ma è chiaro che, ragionando in senso generale, si avverte chiaramente il sopravanzare del particolare sul generale. Cioè, ancor più chiaramente, che gli interessi individuali o di casta fanno ormai premio su quelli della collettività, in quanto le borghesie cittadine hanno perduto, per via d’una caduta verticale delle proprie “culture”, la nozione delle proprie responsabilità sociali. S’avverte anche in una città come Cagliari, d’essere entrati, e non è una sensazione illuminante, in una società pericolosamente segnata dal vuoto, visto che ad un ciclo storico pieno di interessi e di progetti “per il progresso comune”, ed orientata verso l’innovazione e la crescita, si è andato sostituendo un romantico ritorno al passato, a quella piccola e povera Sardegna rimasta al retaggio de is biddas e de is biddattones, che tanto aveva intristito un fine intellettuale della politica come Camillo Bellieni.

 

Vi è dunque l’esigenza di riscoprire e di riutilizzare quei valori borghesi che, in passato, seppero dare cultura e sostanza all’avanzamento economico cittadino (ancora nel 1950 erano circa 15 mila gli occupati nelle industrie cittadine: oggi si contano in alcune centinaia), dando così sostanza e numeri ad una crescita qualitativa e quantitativa che avrebbe fatto di Cagliari una città europea. Perché la storia insegna che sarebbe stata proprio la città, con i saperi e l’impegno dei suoi abitanti, a favorire la nascita dell’industria ed a diventare essa stessa industria; perché proprio nella città verranno formulate ed elaborate le innovazioni più importanti del progresso civile. Occorrerebbe quindi che la middle class cittadina, sempre più distratta dalle ammalianti sirene speculative, tornasse a “a desiderare il futuro”, a ricercare spazi ed occasioni per programmare una propria emancipazione sociale fondata sull’impegno e sulle volontà di dover costruire sviluppo. Ritrovando così quella rinascita del desiderio d’un futuro migliore che è capace di far riemergere la virtù civile necessaria per ritrovare l’entusiasmo e le volontà indispensabili per ridare slancio ad una comunità che appare, per tanti segnali, come appiattita su quel falso mito aurorale de is pinnetas e de is cuilis. Occorrerebbe ancora che, a partire dalla città e dalle sue élite, ci fosse uno scatto d’orgoglio, una voglia di uscire fuori dall’appiattimento attuale, ritrovando nelle sue istituzioni-guida (dalla Camera di commercio alle associazioni degli industriali) la voglia di promuovere una crescita dell’economia, ridando così, proprio alla fabbrica, il valore del suo significato etimologico, che è poi quello d’essere il luogo dell’attività e del lavoro.

 

Quest’osservazione va certamente ben al di là di alcune pur spiacevoli vicende attuali, ma prende spunto dal fatto che la Sardegna produttiva appare in una fase di sempre più accentuato arretramento. Infatti, ha sempre più aggravato il suo stato di dipendenza dai trasferimenti esterni (per ogni 100 euro spesi dai sardi, circa 78 vanno verso prodotti dell’import: cinquant’anni fa il rapporto era 100 a 39), tanto da dover essere considerata “diversamente abile” nella sua costituzione economica. Perché oggi quel che si produce nell’isola non è in grado di interessare i consumi interni, di dare occupazione ai tanti, troppi disoccupati-inoccupati ed a frenare flussi d’emigrazione sempre più sostanziosi, in quantità e qualità.

 

Di questo declino se ne è del tutto certi e convinti, e se ne trovano le conferme anche nell’ultimo rapporto di Bankitalia sull’economia isolana. Da cui si ricava un quadro preoccupante della situazione, con un valore aggiunto industriale in arretramento (ora è inferiore di quasi sei punti percentuali da quello riveniente dagli stipendi pubblici), con la perdita, in un triennio, di circa un quarto delle imprese del comparto. Perché senza la diffusione di fabbriche e di lavoro industriale (occorrerebbe prenderne atto), l’isola rimarrà condannata ad avere i record europei dell’inoccupazione e dei disagi sociali.

 

Quel che viene da indicare, come causa-effetto, è che la cultura della città, come espressa delle sue élite (che è poi quella che dovrebbe portare avanti il progresso, attraverso l’elaborazione di processi, prodotti e servizi innovativi), abbia ormai abdicato al suo ruolo, cedendo il passo ad un’ideologia, espressa da sempre più invadenti gruppi sociali “antiprogressisti per natura” (come avrebbe detto Attilio Deffenu), che hanno messo in campo un’ideologia avversa e contrapposta.  Anteponendo di fatto le valenze d’un conservatorismo d’antan (tutto deve restare come nei giorni della creazione) oltre, ma non secondariamente, quelli delle rendite parassitarie (ieri quella dei fondi rustici, oggi quella delle assistenze pubbliche), nei confronti di quelle, assai più virtuose per il progresso sociale, del lavoro e del profitto con le attività d’impresa. Tutto questo è avvenuto (e continua ad avvenire) senza che gli esponenti delle categorie produttive, che pure in città non mancano, dicano qualcosa, indaffarati come sono (o come sembrano) ad interessarsi di tutto, fuorché di dare forza e vigore ad una rappresentanza sociale che ritrovi e riprenda le qualità d’impegno come espresse da quella indimenticabile great generation che, in passato, si pose alla guida della crescita civile e del progresso economico della città e dell’isola.

 

Paolo Fadda

 

 

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