La Bper tra un anno potrebbe incorporare il Banco di Sardegna

Secondo i rumors circolati in queste ultime settimane negli ambienti finanziar milanesi, con l’inizio del nuovo anno (2015), la Banca Popolare dell’Emilia Romagna procederebbe alla incorporazione del Banco di Sardegna spa, rilevando, attraverso un’operazione swap, il 49 per cento del capitale ancora in mano all’omonima Fondazione. Risulterebbe anche – sempre con informazioni provenienti dagli stessi ambienti – che proprio il presidente dell’ente sardo, Antonello Cabras, ricevuta la proposta da parte del numero uno della banca modenese Alessandro Vandelli (nella foto), avrebbe dato incarico ad una importante società di revisione (la Deloitte?) per provvedere alla valutazione del valore patrimoniale della partecipazione, in modo da poter procedere, conseguentemente, al concambio (swap) con azioni della Bper quotate in borsa. Cioè senza esborso in contanti e senza determinarne sofferenze al suo patrimonio. In questo caso la Fondazione sarda diverrebbe il più importante azionista della Bper, anche se il particolare regime statutario vigente nelle “Popolari” (il voto capitario: cioè, la regola per la quale ogni socio è titolare di un singolo voto indipendentemente dal numero delle azioni possedute) le impedirebbe di divenirne l’azionista di comando. Infine, secondo quanto risulterebbe a fonti ben informate, non si ha conferma alcuna se dell’operazione sia stata messa a conoscenza, o meno, la presidenza della Regione Sardegna.

Fin qui le nostre informazioni esclusive, provenienti da Milano. Si è inteso premettere questa notizia (tra l’altro rilanciata dall’autorevole giornale finanziario MF il 18 scorso), proprio per informare i nostri lettori che quel che si va scrivendo sul problema del credito nell’isola e della posizione molto discutibile assunta dalla Fondazione, sia ormai giunto al suo show-down. E che la Sardegna deve assumere sull’argomento una posizione chiara e definitiva. Proprio perché quanto iniziato nell’inverno del 2000 con la cessione alla Bper della maggioranza del capitale del Banco di Sardegna spa, sarebbe ormai giunto alla fase finale, con la definitiva sparizione di una banca sarda dal sistema creditizio locale (va tenuto presente che nel portafoglio attuale del Banco di Sardegna c’è anche il controllo della Banca di Sassari).

Partendo proprio da queste informazioni, occorre mettere in chiaro alcune osservazioni/valutazioni sul problema del credito bancario nella nostra isola e, conseguentemente, sulle ragioni della chiamata in causa della “Fondazione Banco di Sardegna” come possibile strumento di difesa del radicamento territoriale ed operativo di una banca sarda.

È giusto premettere che i pareri espressi avrebbero presentato anche talune difformità, pur nell’unanime convincimento che una banca “sarda e dei sardi” sia condizione importante, se non essenziale, per sostenere e per consentire lo sviluppo dell’economia.
Il distinguo ha riguardato, innanzitutto, la convenienza, o meno, di mantenere la partecipazione azionaria (oggi al 49 per cento) della Fondazione nella società bancaria. Con due tesi differenti: l’una a sostegno dell’ipotesi (come oggi sul tappeto) di una completa uscita da quel capitale, seguendo quanto già fatto dalla Fondazione Cassa di Roma del prof. Emanuele, e l’altra propensa a rendere più attiva ed incisiva quella partecipazione a difesa degli interessi del territorio, così come propugna il prof. Marcello Clarich per la Fondazione MPS.

Due tesi oggi di estrema attualità, visto che la Fondazione dovrà trovarsi, a brevissimo, a dover decidere se rimanere azionista del Banco o della Bper. Tertium non datur, in quanto per il patto leonino sottoscritto non esiste una terza possibilità.

Purtroppo, fino ad oggi, come qualcuno ha sostenuto, la Fondazione si è dimostrata un azionista “eunuco”, cioè – come vuole l’etimologia greca di quel termine – un custode impotente del talamo sardo del banchiere modenese. Cioè succuba impotente dei voleri della Bper. In effetti la banca modenese ha già incorporato tre degli istituti controllati (Popolare di Ravenna, Banca della Campania, Popolare del Mezzogiorno). Perché parrebbe ormai divenuta obsoleta, e ripudiata, l’idea di costituire un “network di banche territoriali”, molto cara al suo predecessore Guido Leoni (ed invisa, o mal tollerata – per quel che si sa – dalla stessa Banca d’Italia). Così il Sardegna sarebbe, nei proponimenti più probabili e possibili, una nuova prossima preda.

Proprio in questa direzione, cioè che la Fondazione debba e sappia dimostrare finalmente di avere is buttarigas dell’azionista, va incentrata l’attenzione (e la conseguente preoccupazione) proprio perché è il Banco di Sardegna, come “banca sarda e dei sardi”, lo scopo primo di questa campagna in difesa della sardità di un istituto di credito locale. Perché l’economia dell’isola non può consentirsi di perdere una banca radicata nel suo territorio e coerente nel suo operare con le specialità/originalità del suo particolare sistema produttivo.
Noi siamo fortemente convinti che per la realizzazione di un efficace programma di sviluppo, il primo degli strumenti essenziali nelle mani del programmatore politico, rimanga indubitabilmente il credito (il secondo, a nostro avviso, sarebbe l’energia). Che deve avere due caratteristiche anch’esse essenziali: deve essere capace di operare “su misura” alle esigenze delle imprese locali, e ancora predisporre un’offerta di condizioni di miglior favore in quanto ad accessibilità e costo. Cioè una banca che sappia e voglia accompagnarne lo sviluppo dell’economia e non lucrarne i vantaggi. Crescendo con il territorio e non a spese del territorio, come oggi accade per via dei troppi banchieri furisteris.
Se dunque in Sardegna non si ha una politica regionale per il credito (e non la si ha neppure per l’energia, da noi così cara e deficitaria), è assai difficile pensare ad investimenti produttivi che ci allontanino dalla recessione in atto. Non rimane quindi che cercare di difendere a spada tratta, e con ogni possibile argomentazione giuridica e politica, questo “nostro” Banco dall’ingordigia senza limiti (un vera e propria bulimia di potere) dei banchieri modenesi. Almeno attraverso l’informazione, in modo da mettere sull’avviso la pubblica opinione di quanto sta accadendo dalle parti dell’istituto di credito sassarese.

Per dare sostanza a queste nostre valutazioni e, non secondariamente, per esporre le ragioni poste a fondamenta di questi nostri interventi “pro Banco”, si è inteso prendere a prestito un autorevole giudizio “esterno”. Si è così riletto quanto scritto da Gianni Toniolo (ordinario di politica economica a Ca’ Foscari, e riconosciuto come grande esperto di economia bancaria) in chiusura del suo saggio apparso sulla “Storia del Banco di Sardegna” (edito da Laterza nel 1995). Lo si ripropone tal quale, proprio perché in esso si ritrovano le ragioni di quel che, come Amsicora, stiamo sostenendo. Così scriveva il professor Toniolo:
… [un problema] emerge dall’assetto prospettato dalla legge Amato-Carli e dalle successive ‘direttive ministeriali’ che vedono da una parte una fondazione dotata di un grande patrimonio ma priva di partecipazioni di maggioranza nell’azienda bancaria e dall’altra una banca le cui azioni vadano prevalentemente in mano a privati. Si tratta di un assetto che può avere notevoli vantaggi in una regione quale la Sardegna, adattandosi bene alla sua storia peculiare. La fondazione infatti assumerà su di sé compiti di assistenza e promozione della società civile che rispondono ad una tradizione secolare e ai quali non pare né giusto né opportuno rinunciare. La banca servirà bene l’economia regionale proseguendo l’efficienza e massimizzando il profitto. Ora, perché questo assetto abbia un compimento coerente con la storia della Sardegna, parrebbe opportuno che il controllo del Banco non uscisse dall’isola. Sarebbe così pienamente realizzato il progetto di Cavour: dare alla Sardegna una grande, efficiente, solida banca privata. Vorranno i sardi, questa volta, sottoscrivere la maggioranza del capitale della propria banca?
Si è trattato – per dirlo chiaramente – di un consiglio che doveva, e poteva, divenire il programma d’azione per delle operazioni allora possibilissime per la Fondazione. Le si elencano qui di seguito: (a) procedere alla trasformazione delle azioni di risparmio quotate a piazza Affari in azioni ordinarie; (b) richiedere la quotazione in borsa della totalità delle azioni ordinarie in suo possesso, pari al 100% del capitale del Banco; (c) offrire ai risparmiatori sardi, attraverso un’IPO borsistica (Initial public offering), la maggioranza di quelle azioni quotate, in modo da poter rispettare le direttive ministeriali sulla dismissione del controllo diretto sulla banca e realizzare la privatizzazione della banca.
In buona sostanza, Toniolo riteneva allora (si era nel 1995, cinque anni prima che si compissero le infauste nozze societarie tra Banco e Bper) che si fosse di fronte alla concreta possibilità di far sì che i sardi potessero acquisire il controllo della loro banca, senza mediazione alcuna con la politica ed i politici.

La storia dirà che non fu così, e non per colpa o cattiva volontà dei sardi. Per un lustro abbondante (cioè fino all’autunno del 2000), non fu fatto niente, né la quotazione in borsa del capitale, e neppure una sollecitazione pubblica ad acquisire la maggioranza del capitale del Banco. Ci si sarebbe limitati a delle sterili schermaglie a chi cedere il controllo del Banco, se ad una banca estera (si parlò a lungo dell’olandese Abn Amro e dell’inglese Barklays bank) od a qualche primaria banca nazionale. Si dirà ancora che queste trattative, tenute senza trasparenza alcuna, furono accompagnate da un fastidioso strascico di ostracismi misti a pettegolezzi. Tutto questo fra mille incomprensioni (eufemismo per mascherare una vera e propria lite tra comari che coinvolse i presidenti dell’azienda bancaria e dell’azionista Fondazione), così da motivare gli uffici della Banca d’Italia ad imporne la cessione del 51% del capitale. In questa circostanza spuntò la candidatura della Banca Popolare dell’Emilia Romagna (Bper), un istituto di media fascia, ritenuto però dall’ambiente creditizio come assai disinvolto e rampante, dalle forti ambizioni ma dalle modeste risorse patrimoniali, gratificato peraltro dall’appoggio di autorevoli sponsor politici di opposte sponde.

Fu un’operazione non semplice, operata tra l’altro in due tranche, tanto da avere dato qualche credito ad un voce che vorrebbe che la Bper fosse giunta alle nozze con il Banco, grazie ad una ricca dote finanziaria messale a disposizione proprio dalla stessa Fondazione!
Poco interessa se ci sia qualche verità o solo delle malignità in questa “vox populi”: certo è che da allora i rapporti Bper-Fondazione diventeranno strettissimi, con la prima a comandare e la seconda ad ubbidire disciplinatamente. D’altra parte la banca modenese aveva ben compreso che nel ventre del “Sardegna” c’era un grosso tesoro, sia in assets che in valori liquidi, da cui poter attingere per la propria crescita patrimoniale. Sarà questo proprio l’incipit di un rapporto diseguale la cui conclusione potrebbe avvenire – se le previsioni degli analisti finanziari sono esatte – l’anno prossimo (2015), allorquando la Bper si attiverà per incorporare il Banco, riuscendo così a cancellare quel “di Sardegna” che già oggi, per tanti ovvii motivi, appare già un paradosso, visto gli ordini modenesi a cui deve sottostare (qualcuno ha scritto che si è di fronte ad un banco di Modena in Sardegna).

C’è quindi il pericolo (se non proprio la probabilità) che la Sardegna possa perdere definitivamente, ed anche nominalmente, quella banca regionale che si era riusciti ad ottenere dopo cento e più anni (tanti infatti ne passarono dalla proposta di Cavour e la sua costituzione). E non si vorrebbe che siano gli stessi sardi a decretarne dopo solo mezzo secolo la sparizione (ma sarà veramente sarda, ci si domanda, la governance della Fondazione?).

Ma la Sardegna può perdere la sua banca? Ed è questa la domanda che qui rilanciamo proprio per dare corpo e continuità a questa nostra crociata che ci impegniamo di non abbandonare.

Amsicora

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