Il Banco di Sardegna e la Bper. Intervista (riservata) su come riusciamo a farci male da soli

Sono mesi cruciali per il futuro del Banco di Sardegna. E’ in gioco il suo ruolo futuro, il suo tornare a essere la banca dei sardi. Il “gruppo Amsicora” – pseudonimo di un gruppo qualificato di addetti ai lavori – ci propone questa ricostruzione. Attraverso l’intervista a un personaggio che sa molte cose.

«La Bper, per la sua trasformazione in SpA, sembrerebbe voler attendere l’ultimo giorno utile a fine anno, sperando in qualche cambiamento di rotta politica, magari a causa della caduta del governo, possibile dopo il voto referendario a fine ottobre, e di una conseguente retromarcia parlamentare. Proprio per questa posizione di attesa non avrebbe mostrato alcun interesse ad esercitare il diritto di prelazione sulla quota di capitale del Banco di Sardegna che la Fondazione è obbligata a vendere entro pochi mesi. Sono un po’ queste le notizie che circolano in questi giorni negli ambienti borsistici milanesi».

È questa la risposta che si è ricevuta da un autorevole operatore di piazza Affari, buon amico del “gruppo Amsicora”. Si era interessati a conoscere un suo commento dopo la forte reprimenda che il Governatore della Banca d’Italia aveva rivolto nelle scorse settimane alle quattro Popolari inadempienti (fra cui proprio la Bper) dell’obbligo di legge sulla loro trasformazione in SpA.

La domanda è stata la prima di una lunga conversazione (qui condensata in forma di intervista) che è divenuta, per l’interesse dell’argomento, molto indicativa per quel che sarà il futuro sia della banca modenese che della sua controllata sassarese. E, non secondariamente, del sistema creditizio isolano.

Se risponde al vero, come lei ritiene, un dichiarato disinteresse dei banchieri modenesi ad acquisire il 49 per cento detenuto dalla Fondazione nel capitale del Banco, oggi valutato nominalmente circa 350 milioni di euro, possiamo domandarle chi ne potrebbe essere il possibile acquirente?

«Credo che sarà assai difficile che la Fondazione possa collocare sul mercato una quota di capitale di minoranza, anche se oggi, a spanne, potrebbe valere neppure un centinaio di milioni. D’altra parte, per la politica di bilancio imposta dalla Bper alla sua controllata sarda, che l’ha privata di ogni redditività, e, più particolarmente, ne ha svuotato i suoi principali valori patrimoniali, tanto da debilitarne ed indebolirne la capacità operativa, sarei dell’opinione che quelle azioni non riscuotano sul mercato alcun appeal. A meno che, aggiungo, non ci sia qualcuno che intenda dare fastidio alla Bper, ai suoi progetti di resistenza sul voto capitario ed ai suoi attuali vertici».

E chi sarebbe, a suo avviso, quel “qualcuno”?

«Non credo d’essere un cattivo indovino se indico in uno o più fondi d’investimento quel ‘qualcuno’. E questo per una ragione molto semplice: perché nell’attuale Risiko bancario, i veri protagonisti non sono più gli uomini della politica, più o meno mascheratisi nelle fondazioni bancarie, ma i manager dei vari fondi internazionali. Occorre prendere atto che il primo azionista dell’Unicredit, una delle maggiori banche nazionali, oggi è il fondo statunitense BlackRock. E che nel destino delle Popolari quei fondi, in gran parte statunitensi, sono ormai l’ago della bilancia».

Ma quale sarebbe l’interesse di quei fondi internazionali ad interessarsi delle nostre banche?

«In un rapporto riservato, proprio la BlackRock avrebbe indicato nella modesta e talvolta insufficiente redditività di molte banche italiane, ad iniziare dalle Popolari, la motivazione prima dell’interesse all’investimento. Perché nella loro mission c’è proprio quello di ribaltarne la gestione, portandola ad indici soddisfacenti. Comprano a poco, risanano e ricollocano sul mercato il loro investimento ricavando interessanti margini di profitto. Molte banche italiane, ad iniziare dalla Bper, sono quindi delle prede interessanti per quei finanzieri».

Da questo scenario come lei lo descrive, la Fondazione dovrebbe quindi ricercare un collocamento del suo 49%, o un’alleanza operativa, con uno o più Fondi?

«Non sono molto addentro alla questione specifica, ma ho sentito parlare di alcuni contatti che i dirigenti di uno di quei fondi avrebbero avuti con la Fondazione bancaria sarda. Non saprei dire quali siano gli obiettivi che le due parti vorrebbero perseguire, ma potrei ritenere che la preda possa essere la Bper, cioè il suo controllo ed il suo futuro: tenete presente che i fondi sono azionisti di quella banca per una percentuale a due cifre ed anche la Fondazione vi ha già una buona presenza».

Nei mesi scorsi s’era raccolta la notizia di un patto di collaborazione fra la Fondazione e la Merril Lynch, in linea con quanto lei ci ha appena detto: però quella notizia non ha avuto alcuna conferma, tanto che qualcuno l’avrebbe definita niente altro che una frottola. Cosa ne dice?

«Il fatto che non ci siano state conferme o smentite, mi confermerebbe che quel patto sia stato effettivamente sottoscritto dalle due parti. Posso aggiungere che qualche settimana fa ho potuto notare un certo nervosismo in Alessandro Vandelli (il Ceo della Bper) nel rispondere ad una domanda, peraltro impertinente, sullo stato dei rapporti della sua banca con la Fondazione. Sintomo, questo, che quei rapporti non siano più idilliaci come un tempo. È certo, perché ne ho conoscenza diretta, che i metodi di gestione del Banco di Sardegna, così come quelli della Bper, vengano ritenuti dagli esperti assolutamente inadeguati in fatto di redditività operativa e di correttezza gestionale. E che siano quindi bisognosi di interventi correttivi. Il fatto poi che il Banco sia stato appesantito recentemente dalle 50 filiali e dai 400 dipendenti della Banca di Sassari, renderebbe necessaria ed urgente una forte operazione di risanamento e di riequilibrio gestionale».

Quindi lei ritiene quest’ultima operazione imposta dalla Bper al Banco di Sardegna un grave errore?

«Non occorre essere degli esperti banchieri per capire che è stata un’operazione tutta a danno del Banco. Soprattutto dal punto di vista della gestione. Si è tutti a conoscenza che attualmente le operazioni in agenzia si siano molto ridotte, che il presidio del territorio non dovrebbe essere più esercitato con i metodi precedenti e che, conseguentemente, la razionalizzazione organizzativa e l’alleggerimento territoriale siano divenuti il problema number one che i dirigenti bancari sono chiamati ad affrontare. Pertanto l’acquisto da parte del Banco del ramo d’azienda della “Sassari” non può che cozzare decisamente con il buon senso. Mi stupisco quindi come nell’Isola sia potuta passare sotto silenzio».

Per concludere questa nostra conversazione, lei ritiene che il Banco di Sardegna possa ritornare ad essere autonomo e, soprattutto, capace di buone performance reddituali?

«È una domanda impegnativa e difficile. Nei 15 anni di controllo, la Bper ne ha mortificato le capacità e le volontà, riducendolo ad essere soltanto una rete di sportelli, del tutto tributari degli interessi modenesi. Questo è il giudizio che, mesi or sono, mi ha espresso un funzionario di Bankitalia, forte di esperienze sarde. Cambiare registro e modalità di comando non sarà certo facile: comunque una presenza attiva e risanatrice dei Fondi d’investimento potrebbe ribaltare la situazione attuale, riportando il Banco sardo ad essere, mi permetto di dirvi, una vera banca. Oggi purtroppo non lo è più. C’è poi l’incognita delle Fondazioni bancarie, come la vostra sarda; potrebbero essere determinanti, ma troppo spesso s’atteggiano ad essere, nel mondo della finanza, dei feroci ed arditi lupi da rapina, non accorgendosi d’essere niente altro che degli innocui pechinesi da compagnia. Divenendo così facile preda di quei veri lupi, giunti, magari, dall’Oregon».

Fin qui la conversazione con l’amico milanese, che si è inteso trasformare, d’accordo con lui, in un’intervista. Leggerla può servire a capire come noi sardi si sia capaci di farci male da soli.

Amsicora

 

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