L’INTERVISTA. Pietrino Soddu e i sardi al Quirinale: “Un terzo presidente non ce lo danno”

Pietrino Soddu, il moroteo sette volte presidente della Regione, fa il punto sul toto-Quirinale. E ripercorre i suoi rapporti con Cossiga.

Pietrino Soddu scarta subito l’ipotesi che un terzo sardo, dopo Antonio Segni nel ’62 e Francesco Cossiga nell’85, diventi Capo dello Stato. “Sarebbe bello – dice il sette volte presidente della Regione, consigliere della massima assemblea sarda dal ’61 all’83 e ancora deputato per undici anni, fino al ’94, prima di guidare la Provincia di Sassari -. La statistica – osserva Soddu – non ci aiuta. Ma proprio per questo Sergio Mattarella ha ottime possibilità di arrivare al Quirinale: la Sicilia non ha mai espresso un presidente della Repubblica”.

Onorevole, il 29 gennaio c’è il primo scrutinio col quale scegliere il successore di Giorgio Napolitano. Previsioni?

Non ho la minima idea. Ho alcuni amici candidati: lo stesso Mattarella, ma anche Castagnetti e la Finocchiaro. Solo che stavolta non sto facendo il tifo.

Nemmeno per i sardi in corsa? Cioè Parisi, Manconi e qualcuno dice perfino Segni jr.

Ho parlato di recente con Parisi. E abbiamo convenuto sul fatto che un terzo presidente non ce lo concederanno. Mattarella ha dalla sua anche il fatto di essere stato fratello di Piersanti, giovane presidente della Regione Sicilia ucciso dalla mafia nell’80, il giorno dell’Epifania.

Il toto-Quirinale è un elenco lungo. Trova che ci sia un papabile più adatto degli altri?

Io credo che tutti i candidati farebbero bene.

Anche la Bonino, se non fosse che la malattia ha bloccato la sua corsa?

Il presidente della Repubblica deve aver per definizione un ruolo di equilibrio. È difficile che un Radicale possa garantire la moderazione richiesta. Ma è pur vero che il ruolo cambia la persona.

Cioè?

Voglio dire che quando un incarico piace, anche chi ha un carattere tranquillo può arrivare a comandare più di quanto ci si aspetti.

Napolitano che Presidente è stato?

Direi buono. Io avrei parlato di meno, per esempio. Ma ha dovuto fare una supplenza alle crisi politiche. Si è trovato ad affrontare circostanze che lo hanno obbligato a intervenire continuamente.

Nel ’78, Pertini, il “presidente che profumava di pulizia”, come lo definì Montanelli, venne votato al sedicesimo scrutinio. Lei era capo della Giunta sarda e quindi grande elettore. Che ricordo ha?

Noi della Dc avevamo all’inizio un nostro candidato. Poi convergemmo tutti su Pertini, un personaggio che aveva alle spalle una storia di Resistenza. Era spontaneo, anche troppo. Fu molto cordiale: pochi giorni dopo l’elezione, riunì al Quirinale tutti i presidenti delle Regioni.

Nell’85, quando lei era già deputato, Cossiga divenne Capo dello Stato al primo scrutinio. È successo solo altre due volte, con De Nicola e Ciampi.

Cossiga, candidato su proposta di De Mita, mise tutti d’accordo, malgrado qualche resistenza sui suoi metodi.

Voi siete conosciuti giovanissimi a Sassari. Poi le vostre strade si sono divise.

Dal ’56 al ’69, quindi per tredici anni, abbiamo fatto parte della stessa corrente: Iniziativa democratica, alla quale appartenevano Segni, Moro e Colombo. Poi Moro ruppe, e in Sardegna lo seguimmo Dettori e io. Cossiga andò con Taviani e poi aderì alla Base, i cui capi erano De Mita e Marcora.

Si dice che lei fu critico rispetto al mandato presidenziale di Cossiga.

Effettivamente esiste questa leggenda. Eppure, quando nell’83 venni candidato alla Camera come capolista in Sardegna, ciò fu possibile perché Cossiga preferì il Senato. E lo si è capito dopo: si spostò a Palazzo Madama per arrivare al Quirinale. Io allora ero il segretario regionale della Dc e Cossiga accettò la linea del partito che rivendicava l’approccio sardista alla politica nazionale.

I primi sovranisti siete stati voi democristiani?

Abbiamo fatto battaglie unitarie per difendere la nostra Isola.

Con quali risultati?

Qualche soldo per il Piano di rinascita lo abbiamo portato.

Insomma, con Cossiga era più una rivalità di facciata?

La doppia fase del suo mandato al Quirinale è nota a tutti: nella prima si mantenne silenzioso e quasi estraneo alle vicende politiche. Nella seconda entrò a gamba tesa sull’attività parlamentare, ciò che gli valse l’appellativo di Picconatore. Un atteggiamento a tratti troppo violento, secondo me, ma fu una sua scelta.

Lei da moroteo ha mai rimproverato a Cossiga il non interventismo sul rapimento di Moro?

Io ero un trattativista e la scelta di Cossiga non l’ho mai condivisa. Già nella fase Costituente Moro difese il primato della persona rispetto alla ragione di Stato, quindi non deve sorprendere che lo fece pure durante la sua prigionia. Era la sua linea teorica dello Stato.

Derogata appunto dalla parte anti-morotea della Dc, tra cui Andreotti.

La ragione di quella scelta è ancora sospesa nell’aria. Non si è mai capito perché in tutto il mondo i sequestrati sono stati difesi, tranne Moro.

Venne volutamente lasciato in mano alle Br per essere ucciso?

Qualche anno fa è venuto a Sassari Gotor che sulle lettere di Moro ha scritto un interessantissimo libro, un saggio che aiuta a capire molte parti del sequestro. Lo dissi anche in quell’occasione: l’Italia è andata a farsi benedire da quando è venuta meno la solidarietà nazionale, attraverso quella precisa gestione del rapimento Moro. Quindi è successo che la sinistra è stata esclusa dal potere. Poi il fallimento del Psi, benché i socialisti si considerassero gli eredi della Dc. Infine lo stesso scioglimento della Democrazia cristiana. Io non dico che tutte le derive dello Stato siano una conseguenza della morte di Moro, ma in parte sì. Ucciso Moro, in Italia non si è consolidata la democrazia.

Il terzo presidente della Repubblica da lei eletto è stato Scalfaro.

Che pure non apparteneva alla mia corrente. Lui era uno scelbiano e poi di quell’area, la più a destra della Dc, divenne leader. Scalfaro è il presidente che è cambiato di più durante il mandato al Quirinale. Si è spostato a sinistra, perché non si è mai sentito rappresentato dalla destra di Berlusconi e tanto meno da quella fascista. Scalfaro era un democratico ed esercitò il suo potere con molta coerenza. Era spigoloso, ma di grandi valori e principi. Gli si rimprovera che nel ’94 sciolse le Camere. Però lo fece anche con l’approvazione dei parlamentari. Allora a Montecitorio si votavano quasi ogni giorno autorizzazioni a procedere. L’Aula sembrava un covo di criminali. Il clima non era più sostenibile. Fu una necessità mettere fine a quella legislatura, anche se tanti, come me, sapevano che non sarebbero stati ricandidati.

Non le piace l’Italia di oggi?

C’è una polarizzazione eccessiva. Il passaggio dalla Prima alla Seconda repubblica, o fino alla Terza se così vogliamo chiamare quella attuale, è un Paese dove decidono in pochissimi. La gestione è quasi esclusivamente a due, tra Renzi e Berlusconi. La gente deve solo obbedire. Ai tempi della Dc, le scelte erano collegiali. C’erano pesi e contrappesi politici. La stagione picconatrice di Cossiga è stata proprio il primo tentativo di ottenere obbedienza da una classe dirigente che si controllava vicenda. Non solo: quando Fanfani accentrò troppo potere, cioè presiedeva il Consiglio dei ministri, aveva l’interim agli Esteri ed era segretario nazionale della Dc, venne scaricato.

Il sistema parlamentare della Balena Bianca poteva apparire anche più democratico, ma la prima eredità lasciata della Dc è stata il debito pubblico.

Lo Stato sociale ha un prezzo. E a guardare bene gli spazi dell’inclusione, ci si accorge che esistono ancora vuoti da colmare, malgrado le tante risorse spese. Indubbiamente potevano stare pià attenti. In ogni caso, ai miei tempi, a differenza di quanto succede oggi con Renzi, non era lesa maestà criticare il capo del Governo. A Renzi non gli si può muovere nemmeno un’osservazione, sennò si viene accusati di tradimento. È una cosa terribile, questa.

Alessandra Carta
(@alessacart on Twitter)

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