Cucca: “Io segretario da nove mesi, il disastro del 4 marzo non è colpa mia”

Ecco la relazione integrale del segretario sardo del Pd, Giuseppe Luigi Cucca. che a Oristano ha aperto i lavori della Direzione regionale, la prima dopo la sconfitta alle Politiche del 4 marzo chiuse con un risultato pesantissimo per il partito, sia a livello nazionale e ancor di più nell’Isola. Cucca, come si può leggere, non ha mai fatto accenno alle dimissioni, malgrado gli siano state chieste, con modalità diverse, dalla minoranza interna formata dall’area Soru e dai popolari-riformisti di Cabras-Fadda che Cucca lo hanno eletto alle Primarie del 2017, insieme ai renziani della prima ora e agli ex Ds. A seguire, la relazione di Cucca.

Questa Direzione ha un compito molto delicato, che è quello di analizzare l’esito del voto del 4 marzo e le ragioni di una sconfitta durissima dalle dimensioni inaspettate.

Stante la delicatezza del tema, ho preferito tradire le mie abitudini e anziché parlare a braccio, come faccio di consueto, affido ad uno scritto il mio pensiero, anche per evitare, nella foga della parole, di dire qualcosa che potrebbe essere oggetto di fraintendimento o equivoci.

Ancora, mi permetto di rivolgere un ringraziamento, sentito e non di circostanza, a tutti coloro che hanno inteso mettersi a disposizione, mettendoci anche la faccia, accettando la candidatura, nonché a tutti coloro, militanti, volontari e semplici simpatizzanti, che ancora una volta hanno creduto in noi e nel nostro partito, assicurando il loro impegno e il loro voto.

Ora è necessario capire quali sono stati gli errori che ci hanno portato a questo risultato catastrofico, perché si corregga la traiettoria e si eviti di andare a sbattere un’altra volta contro il muro della retorica populista e della protesta, che hanno dilagato durante la campagna elettorale e hanno tuttavia conseguito un consenso sicuramente inaspettato nelle sue dimensioni.

La prima constatazione è che il Partito Democratico, in Sardegna, come del resto in tutta Italia (specie nel Mezzogiorno), sta attraversando un momento difficilissimo. In stretta connessione con l’ondata reazionaria e antidemocratica che si sta espandendo in Europa e in varie parti del mondo, come peggiore lascito della nefasta crisi economica e sociale.

È in questo scenario – l’hanno ripetuto più volte esperti e analisti e ce lo siamo detti in più occasioni – che si inquadra la disfatta del centrosinistra.

Di fronte al dramma della recessione, i progressisti non hanno saputo elaborare politiche adeguatamente incisive e contingenti, così da contrastare nell’immediato l’assenza di lavoro, la crescita della povertà e l’aumento delle disuguaglianze. E davanti al problema dei flussi migratori non hanno dato soluzioni al bisogno di sicurezza dei cittadini.

Il risultato elettorale ci consegna un’Italia divisa tra Nord e Sud, con un divario che si è accentuato anche negli indicatori economici e nell’andamento del mercato del lavoro, come certificato dall’Istat qualche giorno fa.
Oggi la fotografia del Paese sotto il profilo della giustizia sociale è disastrosa: è cresciuta la forbice tra chi detiene gran parte della ricchezza e il resto della popolazione, nella quale sta lentamente ma progressivamente scomparendo il ceto medio.

Dunque, non c’è da sorprendersi se il voto nelle periferie, così come nelle zone interne, sia andato sostanzialmente a favore dei Cinquestelle e della Lega, cioè verso coloro che, davanti alla disperazione, hanno dato l’illusione della speranza.

Certamente il Pd ha fallito in questo, poichè non è riuscito a restituire la speranza a chi l’aveva persa e ha lasciato il campo libero a quelle forze politiche che hanno catturato l’attenzione degli elettori con discorsi fondati essenzialmente su ragionamenti populisti e demagogici.

La percezione del malessere l’abbiamo maggiormente rilevata durante la campagna elettorale. Abbiamo attraversato la Sardegna in lungo e in largo, ma la distanza tra noi e l’elettorato era già in atto da tempo. Perciò è stato forse persino velleitario pensare di recuperarla in meno di due mesi. E certamente, sotto la spinta del successo conseguito grazie al vecchio sistema elettorale del Porcellum che ci aveva consentito di ottenere un premio di maggioranza di rilevanti dimensioni, non abbiamo percepito il segnale d’allarme lanciato dall’elettorato e abbiamo sottovalutato la portata effettiva del risultato conseguito alle Politiche del 2013: in quelle elezioni, infatti, in Sardegna il Partito Democratico è passato dal 36,20 per cento del 2018 al 25,15, con un decremento di oltre l’11 per cento, addirittura superiore al decremento che si è avuto nelle elezioni di quest’anno.

Durante la campagna elettorale abbiamo avuto modo di toccare con mano e percepire l’esatta portata del disagio del mondo delle campagne, della disoccupazione, delle vertenze industriali irrisolte (come Ottana e l’ex polo tessile), delle famiglie che hanno i figli, magari laureati, senza lavoro e senza prospettive per il loro futuro.

Le nostre risposte a quelle persone sono state evidentemente insufficienti. Non credo che la spiegazione risieda esclusivamente nel fatto che il partito, come sostenuto da molti, in questi anni si sia progressivamente arroccato su posizioni distanti e “borghesi”, perdendo via via la sua vocazione popolare. Penso, invece, che abbiamo dato soluzioni inadeguate all’emergenza, puntando sulle riforme di sistema e sulle politiche ad ampio raggio, in Italia come in Sardegna, anziché dare priorità alle urgenze.

Si è detto più volte che quella appena terminata è stata la legislatura dei diritti e questo è vero, considerati i numerosi provvedimenti legislativi approvati in tema di diritti civili, tutti connotati da un denominatore comune: quello di essere ‘di sinistra‘. Ma il risultato elettorale dimostra inequivocabilmente che volando molto in alto, abbiamo probabilmente tralasciato di volgere lo sguardo con la necessaria attenzione ad altre priorità, avvertite dalla popolazione, dalla gente comune, come impellenti urgenze.

Questi temi sono stati cavalcati dalle altre forze politiche, alcune delle quali hanno costituito veri e propri cavalli di battaglia. Si pensi al tema dell’onestà e della trasparenza della vita politica. Si pensi al tema della sicurezza, diventata una vera e propria emergenza, soprattutto se coniugata con il tema dell’immigrazione, divenuta negli ultimi mesi scottante come non mai.

Più volte ho affermato con assoluto convincimento che il Pd era e continua ad essere l’unico partito radicato e organizzato sul territorio, attraverso i circoli. È da quelle strutture che si deve ripartire per stimolare la partecipazione e provare a riguadagnare il consenso attraverso l’apertura all’ascolto e alla ricerca continua delle soluzioni ai problemi della gente. Tra l’altro , paradossalmente, l’esito del voto ha fatto emergere un’inaspettata voglia di partecipazione, e stiamo riscontrando anche in Sardegna per così dire un ‘effetto Calenda‘, con la richiesta da parte di molti simpatizzanti di tesserarsi.

Questa è certamente un’opportunità che dobbiamo sfruttare al meglio, raccogliendo immediatamente l’invito formulato da Martina e organizzando le assemblee nei circoli, magari precedute da un incontro con i segretari provinciali e i segretari di circolo per la pianificazione delle iniziative.

Stiamo attraversando una fase cruciale ed estremamente delicata che deve essere affrontata con grande serietà.

E c’è bisogno di un’assunzione di responsabilità che inevitabilmente deve partire dal segretario regionale, ma non può non coinvolgere tutto il partito e il gruppo dirigente che lo ha governato in questi anni: il calo vertiginoso dal 36,20% del 2008 al 25,15% del 2013 al 14,82% di quest’ultima tornata elettorale non può certamente essere attribuito ai nove mesi dell’attuale segreteria.

Dobbiamo essere onesti, prima tra di noi e immediatamente dopo verso i nostri elettori: la sconfitta, seppur non prevedibile di queste proporzioni, era nell’aria. Io stesso e per primo mi assumo la mia parte di responsabilità, consapevole tuttavia di aver fatto quanto possibile, pure nella situazione oggettivamente difficile nella quale la nuova segreteria si è trovata a fronteggiare. Capisco che è più facile cercare un capro espiatorio, che in un momento di smarrimento e di sconforto generale prevalga il nervosismo e si cada nella tentazione di voler addossare a chi sta alla guida tutte le responsabilità. Ma sono convinto che un ragionamento di questo genere non porterebbe un esito favorevole, ma sarebbe quanto di più sbagliato si possa oggi concepire nella situazione generale venutasi a creare.

Chi mi conosce sa che non mi sottraggo né alle mie responsabilità né alle critiche, se costruttive, tantomeno al confronto. Ma voglio essere franco e desidero riportare la discussione ad un livello di onestà che in questo momento è quanto mai necessaria. E questa discussione deve essere compiuta, come ho ripetuto incessantemente sin dal momento della mia elezione, nella sede idonea che è questa Direzione, non certamente sui social, dove ci si lascia talvolta trasportare dall’enfasi, dalla rabbia o dalle considerazioni di taluno, che magari neppure ha cognizione dell’effettivo svolgimento della vita politica di un partito.

Faccio una breve cronistoria e parto innanzitutto dallo spirito col quale è nata la mia candidatura: ritrovare l’unità e la coesione interna, per essere più forti e credibili all’esterno. Talvolta è tuttavia accaduto che questo lavoro, questo tentativo, non abbia prodotto l’esito sperato, forse per manchevolezze mie e della mia segreteria e forse anche per atteggiamenti assunti da taluno, che certo non ha agevolato il raggiungimento degli obiettivi sperati, con l’inevitabile indebolimento dell’intero partito.

Ho tentato di mettere in piedi alcune alleanze con altre forze politiche, che purtroppo non sono andate in porto, vuoi perché qualcuna non è stata condivisa da parte di qualcuno dei componenti della nostra dirigenza, vuoi perché – mi riferisco al Partito Sardo d’Azione – è stato fatto un calcolo meramente utilitaristico mascherato da patto esclusivamente elettorale.

Vi è stata poi la vicenda della formazione delle liste. Tutti avevamo la consapevolezza che il combinato disposto dei meccanismi della legge elettorale insieme alla perdita del consenso, non dava garanzie sulla elezione e che i posti per così dire “al sicuro” erano molto pochi. Era quindi impossibile accontentare tutti.

La Direzione aveva conferito il mandato a una Commissione che avrebbe dovuto rispondere alle direttive del partito nazionale, che aveva chiesto la formulazione di una rosa di nomi, riservandosi la decisione finale. La Commissione si è riunita più volte senza tuttavia riuscire a trovare un accordo.

Sono stato quindi convocato a Roma, insieme ai segretari regionali di tutte le Regioni, secondo la prassi osservata in tutte le elezioni politiche e non avevo in mano neppure un’ipotesi di composizione delle liste che, peraltro, come di consueto, avrebbe dovuto essere sottoposta al vaglio del Nazionale, come era accaduto sia nel 2008 che nel 2013.
Anche quell’episodio non ha certamente giovato all’immagine del Partito, dato che l’opinione pubblica ci ha visto litigare per i posti in Parlamento, anziché diffondere un messaggio sulla proposta politica, e così, anche sul piano mediatico, è passata la ben più allettante diatriba per la conquista del potere personale.

Per cercare di venire fuori da questa situazione assurda, che puntualmente si presenta quando entrano in ballo posizioni di potere, dovremmo innanzitutto partire da un assunto fondamentale e imprescindibile: il nemico non è all’interno, è all’esterno del Pd.

L’avversario è il populismo che non siamo stati capaci di contrastare in queste elezioni politiche, è il qualunquismo, è la propaganda dei venditori di illusioni, che hanno presa su quelle persone, purtroppo tante, che sono stanche di sopravvivere piuttosto che vivere dignitosamente, che preferiscono ascoltare i discorsi che parlano alla pancia, piuttosto che alla testa e al cuore.

Il nemico, infine, è la rassegnazione, la disperazione sociale che si traduce nel malessere e, quindi, nella protesta. Ho già detto che non siamo stati capaci di rispondere adeguatamente al disagio e alla drammaticità della situazione socio-economica. Ma è pur vero che risalire la china dal disastro generato da una crisi così profonda è stata un’impresa ardua che, nonostante i notevoli sforzi, si è rivelata insufficiente.

Lunico modo per ripartire è fare autocritica, con umiltà, e provare a ricomporre i pezzi di un partito disgregato.

Dobbiamo rimettere al centro l’obiettivo di una ritrovata coesione e dobbiamo farlo mettendo insieme le energie e le intelligenze che questo partito ha al suo interno, ad iniziare dalla componente giovanile. All’inizio del mio mandato avevo provato a dare un segnale forte e di apertura verso i giovani democratici, che sottendevano ad un percorso di inevitabile rinnovamento, ma il tentativo non ha prodotto l’esito auspicato di avere un rappresentante dei Giovani, perché non è stato raggiunto l’accordo su un nome che fosse davvero un iscritto al movimento e l’opportunità non è stata colta.

In questa fase di ripartenza credo che si debba fare un ragionamento sul ruolo che la classe dirigente giovanile deve avere all’interno del Pd. Ai giovani dico: prendetevi gli spazi, non fate in modo di essere delle pedine nelle mani del padrino politico di turno, abbiate il coraggio di essere liberi e indipendenti dai condizionamenti correntizi.

In questo una grande responsabilità ce l’abbiamo noi dirigenti adulti. Dobbiamo avere l’umiltà e l’intelligenza di non ostacolare il protagonismo giovanile. Ma la più grande responsabilità resta quella di riportare l’armonia dentro il partito e superare le divisioni spesso fondate sul livore o sulle ambizioni personali, peraltro legittime.

Allora da oggi e in futuro dobbiamo evitare che il Pd sardo continui ad essere vittima di se stesso, della logica correntizia esasperata al punto da tradursi in una becera lotta muscolare, sbandierata brutalmente ai quattro venti, e delle fluttuazioni di comodo. Evitare quindi le c.d. maggioranze variabili, che si spostano a seconda delle opportunità e degli accordi. È questa la peggiore immagine che abbiamo dato all’esterno in questi ultimi anni.

Non è innescando l’ennesimo assalto alla diligenza che si riconquista la credibilità, già fortemente compromessa. Se vogliamo riportarla a un livello accettabile e se vogliamo comunicare bene all’esterno dobbiamo prima di tutto comunicare bene all’interno. Questo partito è come un malato che necessita di cure e la cura più sensata e più efficace in questo momento è ristabilire un clima di pacificazione.

Poi possiamo ragionare, ma con una dialettica costruttiva, non certamente con lo scontro, sulla futura organizzazione. Ma dobbiamo farlo con la necessaria serenità e nel rispetto delle regole e dei passaggi che sono stati esaustivamente e chiaramente dettati dal partito nazionale. Come annunciato nella Direzione di lunedì a Roma, la fase congressuale si aprirà verosimilmente tra settembre e ottobre.

Dobbiamo arrivare a quell’appuntamento presentandoci coesi e, quindi, più forti. Anche perché ci attende l’importante sfida delle regionali, alla quale non possiamo permetterci di arrivare con le stesse dinamiche divisive, perché gli elettori ci punirebbero dandoci il colpo di grazia. Faccio mie le parole di Gentiloni: per dare un futuro al Paese (e aggiungo alla Sardegna) ci vogliono serietà e coraggio.

Raccogliamo questo appello. Serietà nell’affrontare la fase ricostruttiva che ci attende, e coraggio nel prepararci a combattere le prossime sfide elettorali, in particolare l’appuntamento delle elezioni regionali 2019.

A questo proposito il Partito Democratico ha il dovere di dare nuovo impulso alla Giunta e al Consiglio regionale per correggere alcune delle politiche fatte e per individuare nuovi strumenti da mettere in campo immediatamente e le leggi che necessitano di essere approvate prima della scadenza del mandato, come la legge urbanistica.

Quest’ultima rappresenta uno degli elementi su cui si gioca la credibilità della maggioranza che governa la regione e dello stesso Pd. Non possiamo permetterci di giocare anche questa partita facendo emergere divisioni e contrasti all’esterno, ma dobbiamo fare uno sforzo per elaborare insieme una proposta che sia condivisa e che tenga conto del contributo di tutti, senza rimanere ostaggio delle nostre contrapposizioni. Il testo che dovrà venire fuori dalla revisione al ddl Erriu, dovrà essere inattaccabile sotto tutti i profili, specie sotto il profilo ambientale e paesaggistico, ma dovrà anche rispondere alle reali esigenze del mercato e del settore turistico in particolare.

Dovremmo provare a compiere il medesimo percorso che abbiamo seguito in occasione dell’approvazione della riforma sanitaria. Ci siamo confrontati in questa sede e alla fine abbiamo trovato un punto di caduta comune che, quantomeno, ha offerto un’immagine del Partito Democratico come di una formazione coesa, con posizioni condivise. Anche in quella materia, peraltro, alcune scelte successive non sono state d’aiuto al percorso che avevamo auspicato, vuoi per i contenuti, vuoi per la tempistica di alcune decisioni assunte. Ma ancora c’è il tempo per riparare a qualcuno degli errori compiuti. Prepariamoci dunque a portare a termine le riforme annunciate ma, per non cadere negli errori del recente passato, cerchiamo di fotografare la realtà della Sardegna per trovare soluzioni mirate e dare risposte immediate ai bisogni della gente, ad iniziare dal lavoro.

Sta partendo finalmente il più importante Programma mai realizzato da nessun’altra giunta, per aggredire il dramma della disoccupazione con un impegno di quasi 130 milioni di euro. LavoRas può essere la risposta più efficace per restituire concretamente quella speranza di cui ho parlato prima, che è l’elemento intorno al quale ricostruire la fiducia e il consenso verso il Partito Democratico.

Facciamolo senza esitare, senza arroccarci su posizioni divisive, usciamo dalla visione miope, più concentrata sui nostri problemi interni anziché sulle esigenze del mondo esterno. Questa è forse l’ultima occasione che ci è rimasta, che è rimasta al Pd, in Sardegna come in Italia, per ricostruire il pilastro politico intorno al quale rifondare un centrosinistra, da taluno considerato ormai dissolto.

Per vincere dobbiamo essere in grado di andare oltre noi stessi, di riappropriarci dello spirito fondativo che metteva al centro i valori progressisti, popolari e riformisti, con un’attenzione ai più deboli senza rinunciare al dialogo con i soggetti economici.

Non c’è più tempo da perdere. Ripartiamo da noi, dalla nostra gente, ma facciamolo con un ritrovato spirito di unità, con serietà e con grande senso di responsabilità. Ho sempre considerato il partito, il mio partito, come una famiglia e ho sempre sbandierato, anche nei momenti più difficili, l’orgoglio dell’appartenenza. In una famiglia si discute, ci si confronta, si esprimono le proprie opinioni, talvolta si litiga. Ma in una famiglia degna di questo nome e proprio nel nome di quell’orgoglio dell’appartenenza, nei momenti di difficoltà si mettono da parte le posizioni personali, i contrasti e i dissidi, ci si riunisce e si fa fronte comune per superarle insieme, ciascuno offrendo il proprio contributo, piccolo o grande che sia, ma comunque secondo le proprie capacità e possibilità.

Questo è ciò che tutti siamo chiamati a fare in questo momento così ricco di insidie. Da parte mia, mi metto serenamente a disposizione del Partito stesso e attendo le decisioni che insieme vorremo assumere, tenendo anche conto delle direttive pervenute dal Partito nazionale.

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