Donne in politica, Sardegna in ritardo. Ma la doppia preferenza ha i suoi limiti

La Sardegna è quart’ultima in Italia per presenza di donne nel Consiglio regionale: nel 2014 ne sono state elette quattro su sessanta, ciò che vale il 6,6 per cento. La classifica è contenuta in un dossier pubblicato dal Servizio Studi di Montecitorio. In testa c’è l’Emilia Romagna col 34,7 mentre in Basilicata, fanalino di coda, l’Assemblea è addirittura composta da soli uomini.

Sardinia Post ha rielaborato i dati approfondendo per ogni regione l’inserimento – o meno – della doppia preferenza di genere nelle rispettive leggi elettorali. Un tema, questo, molto sentito e discusso ovunque, viene fuori. Nella nostra Isola, in particolare, la possibilità di esprimere due voti nelle stessa lista – uno per il candidato uomo, l’altro per la donna – venne bocciata dall’Assemblea regionale nel 2013, quando l’allora Consiglio votò la legge con la quale la Sardegna sarebbe andata alle urne l’anno successivo (leggi qui). Oggi come allora la modifica legislativa divide trasversalmente l’Aula: al momento c’è solo lo stralcio approvato in commissione Riforme.

In Emilia Romagna la doppia preferenza di genere è legge dal 2014. Anche se, come dimostrato da uno studio dell’Istituto Cattaneo pubblicato in quell’anno in concidenza con le Regionali, votare una donna è un fatto culturale, prima che normativo. Nella regione c’è sempre stata, da parte dell’elettorato progressista, la tendenza a puntare anche sulle candidate (30 per cento dei voti totali senza norma e il 48 con la modifica legislativa). L’introduzione della doppia preferenza ha semmai spinto in questa direzione pure l’elettorato di centrodestra, arrivato a riservare alla rappresentanza femminile il 22 per cento delle preferenze totali, contro il 2 per cento registrato fino ad allora.

Dietro l’Emilia Romagna, il più alto numero di elette si registra in Toscana (27,5 per cento ) e in Piemonte (26). Ma se in Toscana il voto uomo-donna è inserito nella legge elettorale regionale, in Piemonte l’introduzione è ancora all’esame della commissione Affari istituzionali del Consiglio. Questo a riprova dell’aspetto culturale del voto dimostrato coi numeri dall’Istituto Cattaneo.

La quarta assise con la maggiore rappresentanza femminile è quella della Provincia autonoma di Trento (22,9 per cento), dove ugualmente la doppia preferenza di genere non è normata. Stesso discorso per il Veneto, quinto nella classifica nazionale al 22 per cento e il cui Consiglio proprio in queste settimane sta discutendo la modifica normativa.  Sempre al 22 per cento c’è la Campania, dove il voto uomo-donna è legge dal 2012 (prima regione ad averlo introdotto in Italia).

La doppia preferenza non è contemplata nemmeno nelle Marche, ma la percentuale di donne elette nel 2015 è stata pari al 20 per cento (settima posizione nazionale). L’obiettivo della modifica legislativa lo ha invece centrato il Lazio, con un voto del Consiglio arrivato a fine ottobre. Nel 2013, con la norma non in vigore, la rappresentanza femminile ha raggiunto comunque il 20 per cento. Al 19 ecco la Lombardia, nona nella classifica e dove sull’introduzione della doppia preferenza l’Aula resta lontana dall’accordo.

Il Friuli Venezia Giulia, con il 18,8 per cento di elette, rientra invece nel gruppo delle regioni virtuose sotto il profilo legislativo. Nella classifica nazionale è decimo e ha in Italia l’unico governatore donna, Debora Serracchiani. La provincia autonoma di Trento occupa l’undicesima posizione: 17,1 per cento di donne in Consiglio, ma l’istituzionalizzazione della norma fatica a trovare applicazione. L’ultimo ddl sulla materia è stato ritirato dai lavori dell’Aula lo scorso maggio.

La Sicilia sta cambiando in queste ore la propria Assemblea: in quella uscente la rappresentanza femminile era al 16,9 per cento. Nell’Isola non c’è la doppia preferenza, ma dal 2013 è vigente il principio delle pari opportunità, garantito con il criterio dell’alternanza uomo-donna nelle liste regionali. In quelle provinciali, da cui si elegge l’Assemblea, è stabilito invece che i candidati di un genere non possano superare i due terzi.

La modifica legislativa ha diviso pure la Liguria, dove il Consiglio ha approvato la nuova legge elettorale nel 2014 bocciando la doppia preferenza. Alle Regionali dell’anno successivo le candidate che hanno conquistato un seggio sono state il 16,7 per cento. In Umbria, che occupa la quattordicesima posizione, il voto uomo-donna esiste dal febbraio 2015 e con quella novità si aprirono le urne nella primavera dello stesso anno: la rappresentanza femminile si è attestata al 15 per cento.

La doppia preferenza non è prevista nelle altre sette regioni inserite nella classifica e che hanno ottenuto risulati molto diversi malgrado l’identica situazione normativa: Molise 15 per cento; Valle d’Aosta 14,7; Puglia 10 per cento; Sardegna, come detto, 6,6; Abruzzo 3,4; Calabria 3,3; Basilicata a quota zero.

Dal dossier del Servizio Studi della Camera si deducono due elementi: l’applicazione della doppia preferenza di genere spacca geograficamente l’Italia, ma sulla partecipazione delle donne alla vita politica esiste, al Sud più che al Nord, un ritardo. Da colmare. Un ritardo che certamente passa dall’organizzazione sociale, in termini di welfare non garantito soprattutto alle donne lavoratrici madri. Tuttavia sarebbe riduttivo ricondurre la questione alle sole pre-condizioni di accesso alle istituzioni. Ecco perché la modifica legislativa rappresenta l’unica strada percorribile: è una via culturale che peraltro non prevede corsie preferenziali, a differenza di quando succederebbe con le quote rose. Resta solo da spiegare come mai l’introduzione del voto uomo-donna non si sia tradotta in massiccia rappresentanza femminile nemmeno nelle Assemblee dove è stata normata. La risposta è forse da cercare nella lentezza propria dei processi culturali che, per loro natura, hanno bisogno di tempo per produrre effetti.

Alessandra Carta
(@alessacart on Twitter)

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