Carcere di Uta. 4/2. VIDEO Patrizia Giua: “Prima di stare qui non mi volevo bene”

Con Patrizia Giua, detenuta da due anni e con fine pena nel 2021, si chiude l’inchiesta di Sardinia Post sul penitenziario di Cagliari.

Sul polso un braccialetto tatuaggio, con disegno tribale. È monocolore, tutto nero. Patrizia Giua parla e ci passa le dita sopra, come in una continua carezza. “Prima di stare qui – dice – non mi volevo bene, adesso l’ho imparato”. Nel carcere di Uta è arrivata, come tutti, il 23 novembre 2014, giorno del maxi trasferimento da Buoncammino dove aveva trascorso gli undici mesi precedenti. Con Patrizia Giua (foto ritratto di Roberto Pili) si chiude l’inchiesta di Sardinia Post dedicata al penitenziario del Sud Sardegna: quattro puntate cominciate con l’intervista al direttore Gianfranco Pala (leggi qui). Poi le testimonianze di alcuni detenuti uomini (Paolo Campus, Dante Lancioni, William Muscas ed Elton Ziri) e ancora la parola data al comandante degli agenti carcerari, Alessandra Uscidda (qui l’intervista). Infine la chiacchierata con Giuseppina Pani, funzionario giuridico-pedagogico, la responsabile degli educatori (leggi qui). Ci sono anche due photogallery, racconti in immagini della quotidianità dietro le sbarre: qui la sezione maschile, qui il reparto femminile del penitenziario.

Fine pena?

Per me il 2021.

Quanti anni hai?

Cinquantanove.

Sei sposata?

Sposata e madre di figli. Sono anche nonna.

Sei rimasta in contatto con la tua famiglia?

Certo. Mio marito e i miei figli vengono vengono sempre a trovarmi. È importantissimo, il rapporto deve continuare.

Ha senso stare in carcere?

Sì. Se non pagassimo per il reato commesso, non capiremmo mai l’inghippo.

Come sai, in questa intervista non si può parlare delle ragioni che ti hanno portato qui. Però, puoi raccontare come ci si sente a vivere in carcere.

Ho imparato a reagire, non posso piangermi addosso. Vado avanti sperando che la libertà sia prossima. A me stare qui è servito per volermi bene come donna e per capire i miei limiti.

Prima non ti volevi bene?

No.

Perché?

Mettevo sempre gli altri davanti. Pensavo solo a fare la mamma e la moglie.

Mica è un male.

Ma facevo tutto in maniera quasi eroica: volevo essere una mamma perfetta, una moglie perfetta. A me non dedicavo tempo.

Qui, seppure pagando un prezzo altissimo, riesci a farlo?

Qui mi coccolo.

In che modo?

Per esempio attraverso la fede.

Prima non eri credente?

Ero credente, ma non praticante.

Dio esiste?

Lo scopri ogni giorno.

Che segni ti dà?

Io mi alzo ogni mattina e lo ringrazio per avermi dato la famiglia che ho.

La più grande difficoltà del carcere?

La mancanza degli affetti.

L’articolo 27 della Costituzione stabilisce che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”. Succede veramente?

Io sento molta umanità. Non siamo dimenticate da Dio. Ci sono anche i volontari e degli educatori.

Tra detenute c’è solidarietà?

Sì.

Come la manifestate?

Io non la esprimo con la fisicità, l’affetto non lo manifesto coi gesti. Preferisco ascoltare o dare consigli.

Abbracci ne ricevi?

In continuazione.

Meglio Uta e Buoncammino?

Buoncammino era preferibile solo per la posizione, nel centro della città: mi sentivo più vicina alla mia famiglia. Ma questa struttura è migliore.

In appena un anno di detenzione sei stata premiata col lavoro interno.

Sì, faccio la cuoca, dal novembre dello scorso anno.

Che orari hai?

Dalle 7 alle 12,30 e dalle 17 alle 19.

Giorni liberi?

Quattro al mese.

Nel resto della giornata cosa fai?

Dipende: uncinetto, scrivo poesie, faccio i cruciverba o leggo. Leggo di tutto e mi piace moltissimo Harry Potter.

Nella vita del carcere è possibile trovare un aspetto positivo?

Se non si trova, si deve cercare. Io, ripeto, ho imparato a volermi bene.

Hai una corrispondenza con la tua famiglia?

No, perché non ho molto da raccontare.

Sei da sola in cella?

No, con un’altra donna.

Quanti anni ha?

Cinquantuno.

Vi trovate bene?

Sì, abbiamo un buon rapporto. Lei è arrivata da poco.

Prima con chi stavi?

Con un’altra ragazza che è uscita a ottobre.

Vi sentite ancora?

No. Una volta che col carcere si chiude, si chiude e basta. Ma sicuramente ci rivedremo.

Sei arrabbiata con qualcuno per il tuo essere qui?

Sono stata arrabbiata con me stessa. Del resto, chi è causa del suo male, è giusto che pianga se stesso.

Qui c’è solo una vita di regole. Pensi mai che siano troppe?

Le regole servono.

A cosa?

A capire gli errori, ad avere la consapevolezza che abbiamo commesso un reato.

Alcuni detenuti uomini intervisti da Sardinia Post si sono lamentati per il fatto che non potete fare dolci, essendo vietato l’acquisto della farina. Per te è un problema?

Purtroppo della farina se n’è fatto un uso sbagliato e sono stati presi dei provvedimenti.

La saggezza cos’è?

Capire che sbagliare è umano, ma perseverare sarebbe diabolico. Spero di avere forza e saggezza.

La violenza fisica tra detenute esiste?

Quella fisica no, ma la violenza verbale sì. Ci possono essere scambi di opinioni anche forti.

Quanto tempo dedichi alla cura del tuo corpo?

Oggi mi sono truccata per l’intervista, ma non lo faccio abitualmente. Tanto non ci guarda nessuno, siano tutte femmine, anche gli agenti. Altra cosa è la cura della persona, che è ovviamente quotidiana: come donna non mi sono mai rifiutata.

Ci pensi mai all’amnistia o all’indulto?

Sarebbe il regalo più grande. Si riesce a vivere anche per questo, sperando che tutto finisca il prima possibile.

Un difetto te le riconosci?

Sono maniaca della pulizia e dell’ordine.

Com’è la tua cella?

L’ho trasformata nel mio nido. È un monolocale con bagno, doccia e cucinino.

Alessandra Carta
(@alessacart on Twitter)

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