Carcere di Uta. 4/1 L’educatrice: “Per i tossicodipendenti serve un’alternativa”

Giuseppina Pani è funzionario giuridico-pedagogico: fa parte dell’équipe che deve portare i detenuti a ‘pentirsi’ dei reati commessi.

Giuseppina Pani (foto ritratto di Roberto Pili) è funzionario giuridico-pedagogico: nel carcere di Uta fa parte dell’équipe di educatori cui spetta far compiere ai detenuti la cosiddetta revisione critica. “È quel percorso – spiega – che comincia con l’osservazione scientifica della personalità e deve condurre un condannato a riflettere sul reato commesso e sulla sua gravità. L’obiettivo è assumere la consapevolezza dell’illecito come un fatto dannoso per una o a più persone della società”. L’intervista rientra nell’inchiesta di Sardinia Post sul penitenziario del Sud Sardegna: quattro puntate cominciate sentendo il direttore Gianfranco Pala (leggi qui). Poi le testimonianze dei detenuti Paolo Campus, Dante Lancioni, William MuscasElton Ziri e Patrizia Giua. Quindi la parola data al comandante degli agenti carcerari, Alessandra Uscidda (qui l’intervista). Ci sono anche due photogallery, racconti in immagini della quotidianità dietro le sbarre: qui la sezione maschile, qui il reparto femminile.

Come si diventa funzionario giuridico-pedagogico?

Per concorso.

Che attitudini ci vogliono?

Bisogna saper entrare in relazione con un detenuto.

Come si fa?

Sviluppando la capacità di ascolto. Il detenuto deve sentire che il nostro non è un orecchio distratto, ma siamo lì per capire nel profondo stati d’animo ed eventuale disagio.

L’équipe di educatori in quale momento interviene?

Va detto intanto che il percorso della revisione critica riguarda solo i condannati, cioè le persone che con certezza restano in carcere. Noi, ovviamente, non facciamo mancare il nostro supporto anche agli imputati o a quanti attendono l’interrogatorio di garanzia. Ma vista la temporaneità della loro permanenza nell’istituto, si segue un protocollo differente.

Come comincia la revisione critica?

Con l’osservazione della personalità: cerchiamo di capire lo stato emotivo del detenuto. Ovvero se ha problemi o ciò di cui ha necessità, indumenti compresi.

Quanti educatori siete a Uta?

Sette effettivi e tre distaccati. Ma lavoriamo insieme all’Uepe: è l’ufficio esecuzioni penali esterne, al quale segnaliamo l’arrivo del detenuto da osservare. L’Uepe lo prende in carico aprendo un fascicolo e assegnandolo a un’assistente sociale, cui spetta ricostruire il quadro personale del soggetto. Si tratta di un vero e proprio ritratto che viene composto sentendo anche i familiari, qualora ci siano, o i datori di lavoro, se per caso il detenuto aveva un’occupazione sino al momento della condanna. Con l’osservazione si ricostruiscono le carenze che hanno portato la persona a commettere un reato.

Le carenze riuscite a capirle sempre?

Ci sono detenuti coi quali si può parlare, altri invece si trincerano dietro l’innocenza.

Le è mai capitato un detenuto davvero innocente?

A me personalmente no. Comunque, sulla personalità di ogni singolo soggetto, molto si può dedurre analizzando il modo in cui si relaziona col resto della popolazione carceraria, o come passa il tempo o valutando quanto partecipa alle attività.

Il tempo dell’osservazione è fisso?

No. Di norma dura nove mesi, ma si allunga fino a un anno per le persone che hanno commesso reati sessuali. Per loro è anche obbligatoria l’assistenza di uno psicologo.

Al termine dell’osservazione cosa succede?

Si riunisce l’équipe di osservazione e trattamento che discute del detenuto e redige il documento di sintesi. Nero su bianco viene messo il cosiddetto programma trattamentale. Dell’équipe fanno parte il direttore, in qualità di presidente, il comandante della polizia penitenziaria, il funzionario giuridico-pedagogico e quello del Uepe.

A seconda del tipo di reato commesso, ci sono atteggiamenti che si ripetono?

Sì. I tossicodipendenti, per esempio, si caratterizzano per fare richieste continue e diffusamente tendono a strumentalizzare gli affetti. Dicono spesso che la loro madre sta male, invocando permessi. I tossicodipendenti hanno in generale un atteggiamento vittimistico.

Chi ha commesso un omicidio?

Dietro un omicidio ci sono i motivi più disparati, non è possibile individuare una ricorsività nei comportamenti.

Il raptus esiste?

Sì.

Cosa cambierebbe del carcere?

Per i tossicodipendenti farei percorsi alternativi: avrebbero oggettivamente bisogno di un intervento diverso, sebbene come gli altri debbano espiare la loro pena. E lo stesso vale per le persone affette da patologie psichiatriche accertate.

La legge 354 del ’75 ha introdotto l’individualizzazione del trattamento: possiamo dedurre che, in certi casi, si tratta giusto di un precetto giuridico.

No, la 354 si applica eccome. Per ogni detenuto, pur nei limiti delle strutture, cerchiamo di studiare un percorso che sia realmente il più idoneo nell’ottica della risocializzazione, il fine ultimo della pena. Portare il soggetto ad acquisire consapevolezza sulla gravita del reato commesso, significa, di conseguenza, spingerlo ad avere il desiderio di riparare il danno sociale.

A cosa serve se, una volta usciti da qui, non c’è nemmeno la certezza di un lavoro? E di questo non ne ha fatto mistero il direttore del carcere, Gianfranco Pala: a Uta ci sono tanti detenuti che non chiedono la detenzione domiciliare, pur avendone diritto quando il fine pena è inferiore ai due anni, perché non saprebbero dove andare. Né avrebbero di che mangiare e vestirsi.

Purtroppo la mancanza di una prospettiva lavorativa è un problema sociale. Ma questo non può impedire a noi educatori di fare in modo che, su tutto, non vengano commessi nuovi reati.

A volte si delinque per disperazione.

Non ci possiamo dare per vinti e rinunciare al nostro compito, al nostro lavoro. Noi dobbiamo preparare i detenuti a una nuova vita, dobbiamo dare loro un’opportunità. La revisione critica è fondamentale a prescindere da ogni scenario futuro. E qui a Uta facciamo il possibile perché una persona riveda la propria condotta illecita acquisendo criticità rispetto al passato.

“Fare il possibile” come si traduce in attività pratiche?

Abbiamo aperto la biblioteca, esiste un corso di alfabetizzazione scolastica, quest’estate abbiamo organizzato un ciclo di conferenze sulla legalità.

Ma la palestra è ancora chiusa e il teatro non ha il certificato di abitabilità, sempre per via del fallimento dell’impresa che ha vinto l’appalto per costruire il penitenziario.

Supereremo anche questi ostacoli.

Un detenuto può vedere i propri familiari per un’ora a settimana. Non è un po’ poco?

Ci sono anche le telefonate.

Dieci minuti a settimana.

Presto per gli incontri con le famiglie sarà a disposizione anche un’area verde. Quando i detenuti hanno figli, è bene creare uno spazio per il gioco.

Ci sono detenuti che rifiutano il percorso rieducativo?

È raro. Magari succede le prime volte, poi accettano. Noi, in ogni caso, spieghiamo che il rifiuto sistematico di confronto con gli operatori e di partecipazione alle attività trattamentali, potrebbe incidere sulla possibilità di usufruire dei benefici previsti dall’ordinamento penitenziario.

Da ventiquattro anni è un funzionario giuridico-pedagogico. Ha lavorato anche nelle carceri di Nuoro e di Iglesias: ricorda una sconfitta?

Non ce n’è una in particolare. Di certo, quando un detenuto non compie la propria revisione critica è sempre un fallimento.

Un successo?

Un detenuto che ha aperto una cooperativa sociale.

Alessandra Carta
(@alessacart on Twitter)

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