Carcere di Uta. 3/1 Un capo donna: “Botte tra agenti e detenuti? Falso”

Con Alessandra Uscidda, comandante degli agenti penitenziari, prosegue l’inchiesta di Sardinia sulla struttura del Sud Sardegna.

Capessa (per concorso) di 290 agenti carcerari. È di Alessandra Uscidda (foto-ritratto di Roberto Pili), il posto di comando nel carcere di Uta: genitori galluresi, l’infanzia a Milano, le medie e il liceo a Cagliari, l’università ancora nel capoluogo lombardo. Quarantadue anni, una laurea in Giurisprudenza e almeno otto ore nel suo ufficio al piano terra del penitenziario. A occhio, una cinquantina di metri quadrati sbarrati come se fosse lei una reclusa. Il telefono squilla ogni due minuti. Con la Uscidda prosegue l’inchiesta di Sardinia Post dedicata al penitenziario del Sud Sardegna e cominciata con l’intervista al direttore Gianfranco Pala (leggi qui). Nella seconda puntata abbiamo invece dato spazio ai racconti di quattro detenuti (Paolo Pietro Campus, Dante Lancioni, William Muscas ed Elton Ziri).

Comandante, quella foto di Borsellino e Falcone?

Sono i miei idoli, da che ero adolescente. Mi trovavo ad Amman, quando uccisero anche Borsellino, nel luglio del ’92, due mesi dopo la strage di Capaci.

Lo Stato contro l’anti-Stato, la sua battaglia quotidiana.

Non è così lineare.

In che senso?

La condotta penitenziaria di un detenuto è inversamente proporzionale al reato commesso: più basso è lo spessore criminale, maggiore è l’aggressività.

Un mafioso si comporta bene?

Assolutamente sì, è ossequioso. Un tossicodipendente no, è aggressivo e irriverente. Anche se il mafioso è giuridicamente l’anti-Stato per eccellenza.

Cosa fa il comandante degli agenti penitenziari?

Sono un prisma: ho il compito di filtrare la luce e trasformarla in colori. Un comandante ha tre funzioni: organizzative, gestionali e relazionali, da esercitare sia verso il personale che verso la popolazione detenuta.

Qui a Uta ci sono 290 poliziotti. Pochi o molti?

Dovremmo essere 444.

Non protestate?

Il Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) ne è a conoscenza.

Com’è possibile garantire la stessa qualità del servizio con la metà degli agenti previsti?

Ciascuno di noi ha un carico di lavoro maggiore rispetto all’ordinario.

Per questo è più facile picchiare i detenuti anziché dialogare con loro?

E chi l’ha detto che picchiamo i detenuti?

Il sindacalista della Uilp, Eugenio Sardo, nel suo report di fine settembre, ha denunciato 200 casi di autolesionismo, 43 tentati suicidi, 85 ricoveri d’urgenza, 106 scioperi della fame e sette manifestazioni collettive. Vorranno pur dire qualcosa.

Su questi dati si è già espresso in maniera esaustiva il direttore dell’istituto Gianfranco Pala, e concordo con lui. A Uta le botte non si danno e non si prendono. Ma soprattutto: non è così che funziona un penitenziario. Siamo un presidio di sicurezza, non un ring. Il carcere ha il carattere di un’istituzione totale, ma il nostro dovere è cercare di superarne gli aspetti negativi.

Cosa vuol dire istituzione totale?

È l’Asylums di cui parlava Erving Goffman. Il termina indica tutte quelle istituzioni in cui le persone sono prese totalmente in carico da una realtà organizzata e tutto viene scandito da un’autorità sovraordinata che ha il compito di controllare i soggetti affidati appunto alla struttura.

Quali rischi?

L’imposizione delle regole, anche attraverso gli orari fissi, si porta dietro il rischio di avviare un processo di infantilizzazione del detenuto che potrebbe perdere la propria individualità. Ma con le strutture di cui dispone il nostro Paese, è il miglior percorso possibile.

Potendo, che modifiche introdurrebbe?

I tossicodipendenti, per esempio, li affiderei a comunità specializzate, anche intramoenia, per un trattamento intensivo di recupero.

Neomamme detenute?

Devono stare con i loro bambini. Ma non in carcere, se possibile.

Dicevamo delle botte ai detenuti.

Il detenuto non perde i diritti: se davvero venisse picchiato, potrebbe chiedere un sovralluogo. Soltanto in casi eccezionali, quando si ha a che fare con un soggetto pericoloso, come previsto dall’ordinamento penitenziario si ricorre all’uso della forza attuando la cosiddetta contenzione.

Cos’è?

Per contenzione si intende tecnicamente l’impiego della forza fisica, eventualmente accompagnata dall’uso dei mezzi di coercizione, nei limiti di quanto espressamente previsto dall’articolo 41.

Un esempio di caso eccezionale?

Quando un detenuto si barrica nella cella e inizia a distruggere i suppellettili, appiccando anche il fuoco al materasso.

L’articolo 41 cosa prevede?

L’uso della forza fisica è consentito nei confronti dei detenuti solo quando sia indispensabile per prevenire o impedire atti di violenza, o tentativi di evasione o per vincere la resistenza anche passiva all’esecuzione degli ordini impartiti. In casi come questi, il detenuto viene sottoposto ad accertamenti sanitari. Il suo stato di salute è documentato pure attraverso rilievi fotografici, trasmessi poi all’autorità giudiziaria per attestare la regolarità dell’attività di contenzione. Capita, è vero, che i detenuti, tra loro, si picchino. Ma se devono regolare conti interni, aspettano la chiusura delle celle, esattamente per cercare di eludere quanto più possibile i controlli.

Tra minacce e aggressioni agli agenti, la Uilpa ha denunciato 63 casi.

Ci sono stati diversi episodi, ma un solo vero: un pugno dato a un poliziotto da un detenuto con problemi psichici. Non c’è bisogno di aggiungere altro.

Aggressioni verbali?

Come nella vita di tutti giorni fuori da qui.

Ci sono i detenuti preferiti?

No. Tutti sono da prendere in carico, in quanto utenti di un servizio.

Dialogo tra agenti e detenuti?

È doveroso.

È mai tornata a casa pentita di essere stata troppo severa?

Quando ci sono eventi critici, quindi emergenze da gestire, a casa si ripensa a cosa si è fatto, questo sì.

Cattive soluzioni prese?

Tutto può essere fatto diversamente, ma l’obiettivo da raggiungere è la soluzione del problema. La sola cosa veramente grave sarebbe il non saper affrontare una situazione, sfaldando la catena di comando. Ma non è mai accaduto.

In quanto donna, si è mai accorta se i suoi sottoposti l’abbiano considerata non adatta a fare qualcosa?

Al contrario. Io credo che gli agenti apprezzino quel supplemento di carica emozionale di cui le donne sono portatrici.

Crede esista un plusvalore al femminile?

Sì. Le donne hanno maggiore capacità di introspezione. A me basta guardare i miei uomini negli occhi per capire come stanno.

I maschi non sanno essere altrettanti bravi a leggere dentro?

Non ho detto questo. Penso che, ancestralmente, le donne sappiano gestire meglio il flusso delle emozioni, hanno affinato una diversa capacità di ascolto e comprensione.

Un abbraccio che non ha dato a un detenuto?

Non si comunica coi soli abbracci, a proposito di carica emozionale: si può usare il linguaggio paraverbale, fatto anche solo di uno sguardo, ma che può valere quanto un abbraccio.

Nel sua quotidianità coi detenuti c’è qualcosa che la fa soffrire?

Mi dispiace quando si interrompono i rapporti tra detenuto e famiglia.

Succede?

Purtroppo sì. E i detenuti la vivono malissimo. La famiglia, nel percorso rieducativo, è una spinta motivazionale importante. Chi non può contare su parenti o amici, fa più fatica a cambiare. Un’affettività eventualmente sgretolata non aiuta.

Nell’ora dei colloquio concesso ai detenuti con le famiglie, un poliziotto penitenziario cosa fa?

Si limita a esercitare un controllo visivo. Prima c’era anche quello uditivo, ma col tempo si è giustamente lasciata più libertà. Il controllo visivo serve per evitare scambi di sostanze stupefacenti, per esempio, che è una pratica frequente.

Quante volte ha pianto?

Di recente mi sono commossa alla festa del Corpo, nel momento in cui ho ringraziato il personale per i sacrifici resi sul lavoro.

Avrebbe voluto denunciare qualcosa e non l’ha fatto?

L’ho sempre fatto: se ci accorgiamo di traffici illeciti all’interno della struttura, non possiamo certo chiudere gli occhi.

Ma denunce contro i disservizi dell’Amministrazione penitenziaria?

No, ho sempre avuto la fortuna di lavorare in carceri con direttori illuminati.

Alessandra Carta
(@alessacart on Twitter)

LEGGI ANCHE: 4/1 L’educatrice: “Per i tossicodipendenti serve un’alternativa”

4/2. VIDEO Patrizia Giua: “Prima di stare qui non mi volevo bene”

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