Trivelle, gli oppositori: “Società petrolifere ricche, allo Stato pochi soldi”

Il comitato referendario: “Le prime 50mila tonnellate di petrolio estratto non sono tassate; idem per i primi 80 milioni di metri cubi di gas”.

Ci sono anche numeri, e non solo ragioni ambientali, dietro il sì all’abrogazione della norma inserita nel referendum del 17 aprile. Una norma contenuta nella Legge di stabilità del 2015 e che assegna le concessioni alle attività estrattive senza limiti di tempo. “Ma a fronte di società petrolifere che fanno business, lo Stato non incassa quasi nulla”.

In Italia, nel 2015, nelle casse della Tesoreria sono “arrivati solo 340 milioni”, sostengono i dieci Consigli regionali che hanno promosso il referendum. E questo perché “le prime 50mila tonnellate di petrolio estratto non sono tassate”. Lo stesso vale per il gas: niente royalties “per i primi 80 milioni di metri cubi. Per di più – hanno scritto ancora le Assemblee di Basilicata, Marche, Sardegna, Puglia, Abruzzo, Molise, Veneto, Calabria, Campania e Liguria – le società del settore godono di un sistema di agevolazioni e incentivi fiscali tra i più favorevoli al mondo”. Alla fine “allo Stato sono tenute a versare solo un importo corrispondente al 7 per cento del valore del greggio prelevato o al 10 per cento del gas estratto”.

Di qui l’appello delle Regioni, come ha fatto questa mattina il Consiglio della Sardegna, “a votare sì il 17 aprile. Del resto, in Italia le estrazioni di gas e petrolio stanno aumentando, senza che questo si traduca nemmeno nel soddisfacimento del fabbisogno energetico nazionale. Le società che operano nel nostro Paese diventano proprietarie di ciò che ricavano dalle trivellazioni e possono disporne come meglio credono. Ma anche ammettendo che tutto il petrolio presente nei nostri mari venisse destinato alla pubblica utilità, coprirebbe le necessità per appena sette settimane. Col gas si scende a sei settimane”.

Va precisato che il referendum riguarda le concessioni già rilasciate. E le ultime sono del ’96. “Tuttavia – sostengono ancora dal comitato promotore – non è vero che un’eventuale vittoria del sì rischia di far perdere posti di lavoro. La cessazione delle attività di estrazione non sarebbe immediata, ma progressiva, con un primo limite di chiusura fissato per il 2026. Il vantaggio, però, è che a partire da quella data i tratti di mare interessati attualmente dalle trivellazioni tornerebbero liberi per sempre”.

Il comitato del sì ritiene che “l’Italia debba puntare su altre ricchezze”. Nella locandina sono elencati turismo, pesca, patrimonio culturale, agroalimentare e piccola e media impresa.

L’industria vacanziera “vale 19 miliardi e 149 milioni (dato Unioncamere del 2013)”; la pesca “produce circa il 15 per cento del Pil (Prodotto interno lordo) e dà lavoro a 60mila persone”; intorno a monumenti e siti archeologici ruota “il 5,4 per cento del Pil, con un indotto annuo di 40 miliardi di euro e un milione mezzo di occupati”; l’agroalimentare “ha un fatturato annuo di 119 miliardi e conta 3 milioni e 300mila addetti”; le imprese italiane (4,2 milioni tra piccole e medie) “assordono l’81,7 per cento del totale dei lavoratori e contribuiscono al 70,8 per cento del Pil”.

Al. Car.
(@alessacart on Twitter)

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