Crenos: la Sardegna investe poco e male, aumentano i giovani disoccupati

Non sono confortanti i dati che arrivano dall’ultimo rapporto Crenos sulla situazione economica dell’Isola: siamo tra le regioni europee più povere, il pil regionale e quello pro capite calano e la nostra economia non è mai stata così in crisi da vent’anni. Un segno positivo c’è, spendiamo di più sia per i servizi che per i beni durevoli: non sarà tanto, ma almeno è un piccolo segnale di fiducia verso la ripresa. I numeri e le tendenze sul quadro macroeconomico della Sardegna relativi all’ultimo quinquennio sono stati illustrati questa mattina a Cagliari, nell’Aula magna della Facoltà di Ingegneria e Architettura, dalla ricercatrice Barbara Dettori. A commentare i dati c’erano Guido De Blasio, economista del Centro studi della Banca d’Italia, insieme a imprenditori ed esponenti della società sarda: Mikela Esciana di Finsardegna, Chiara Sini della società Guide Me Right, Antonello Cabras, presidente della Fondazione di Sardegna e Raffaele Paci, assessore regionale alla Programmazione. Qui la nota diffusa dall’esponente della Giunta.

Gli investimenti

Positivi i dati sugli investimenti, soprattutto pubblici. Enti e amministrazioni isolane, che contribuiscono agli investimenti regionali con un +21% rispetto al 2013, non stanno spendendo su nuove opere ma soprattutto su riqualificazioni e interventi straordinari, in gran parte nei settori della viabilità e della sicurezza pubblica dopo l’alluvione del 2013 che ha devastato il nord della Sardegna. Si spende anche nel settore energetico e in particolare sulle fonti rinnovabili, eoliche e solari: nel 2013 abbiamo speso in questo settore quasi 660 milioni di euro, una media di 400 euro per abitante in Sardegna contro una media nazionale inferiore ai 150 euro.

La produzione

Nel 2016 si registrano 142.986 attività con sede in Sardegna, 400 in più rispetto all’anno precedente. Un dato che fa riflettere, però, è la frammentarietà delle imprese sarde: il 63% dei lavoratori è assunto in microimprese, nelle altre regioni italiane la media è del 46%. Un terzo delle attività, circa 34 mila, appartiene al settore agropastorale, che crea un valore aggiunto del 5% (in Italia arriva al 2%). Il 22% è invece impegnato nel comparto industriale. Il resto delle attività produttive si muove in ambito pubblico e nei servizi non destinati alla vendita, responsabili di circa un terzo del valore aggiunto complessivo; esiguo nell’economia sarda è il contributo di chi produce beni e servizi destinati al mercato. Diminuiti nel 2016 gli scambi con l’estero: le  esportazioni del settore petrolifero registrano meno 487 milioni di euro (-12,5%) in seguito al crollo del prezzo del greggio, mentre il resto dell’economia mostra in generale una scarsa propensione all’internazionalizzazione. I due unici settori le cui esportazioni superano i 100 milioni di euro, la chimica di base e l’industria lattiero-casearia, subiscono anch’essi una contrazione del 10%.

Il lavoro

Lievissimo miglioramento sui tassi di attività: nel 2016 sono aumentati dello 0,2%. Non c’è da entusiasmarsi, la percentuale cresce ma solo perché diminuisce la popolazione relativa: le forze lavoro infatti sono passate da 670 mila a 666,6 mila. Una persona su due è occupata, dato in aumento dello 0,3%: cresce il divario tra la Sardegna e l’Italia, dato che il Mezzogiorno e il Centro-Nord hanno incrementi più elevati (rispettivamente +2,1% e +1,5%). Il tasso di disoccupazione si attesta al 17,3%, leggermente inferiore a quello delle altre regioni del Mezzogiorno. Brutte notizie sul fronte del lavoro femminile: negli ultimi due anni sono peggiorati i dati sui tassi di attività e occupazione delle donne (-0,5 % nel 2016, -0,2 nel 2015), mente il tasso di disoccupazione ha una variazione annuale negativa per le donne (-0,4 punti percentuali) e positiva per gli uomini (+0,1 punti percentuali). Variazioni deboli che comunque confermano il forte gap di genere nel mercato del lavoro sardo, soprattutto per ciò che riguarda la partecipazione: nel 2016 il tasso di attività maschile è pari al 70,3%, quello femminile è pari al 51,6%, quasi 20 punti percentuali di distanza, dato in linea con quanto avviene anche in Italia. Questa distanza si riduce con il livello di istruzione: tra i lavoratori laureati c’è un gap di 7 punti percentuali. Nel 2016 gli occupati scendono a 562.097 (-0,5% rispetto al 2015): calano soprattutto i lavoratori di industria, costruzioni, e i servizi relativi a commercio, alberghi e ristoranti, leggermente meno anche quelli del settore agricolo. Diminuiscono anche i nuovi contratti, che nel 2016 sono il 12,5% in meno rispetto all’anno precedente, in linea con quanto avviene nel resto del paese; i dati sono coerenti con le analisi dell’Ufficio di Statistica del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali che rilevano nel 2016 una marcata flessione del numero di contratti a tempo indeterminato, dato che si è chiuso il periodo di decontribuzione per le assunzioni a tempo indeterminato previsto dalla legge di stabilità 2014.

Le spese per i servizi pubblici

Aumenta notevolmente la spesa sanitaria: nel 2015 è pari a 3,24 miliardi di euro, 1.948 euro per abitante, dato superiore a quello del Centro-Nord (1.880 euro) e Mezzogiorno (1.736 euro) e quindi alla media italiana (1.831 euro). Se negli ultimi cinque anni le spese si sono ridotte dello 0,4% in tutto il paese, in Sardegna c’è un incremento medio annuo dello 0,1%. Il Servizio Sanitario Regionale destina il 10,1% del PIL sardo al settore sanitario, contro il 6,8% in Italia. Si spende soprattutto per il personale, 1,2 miliardi di euro, pari al 37% del totale (in Italia è il 31%). Va meglio invece sui servizi pubblici locali di rilevanza economica e in particolare nel settore dei rifiuti solidi urbani: la Sardegna nel 2015 ha differenziato il 56% dei rifiuti (244 chili per abitante, +6,4% in un anno), contro il 47% della media nazionale (231 chili, +5,1%); allo stesso tempo diminuisce la produzione di rifiuti per abitante: nel 2016 ne abbiamo prodotto lo 0,6% in meno rispetto al 2015. Esiste tuttavia una grande differenza fra efficacia in termini di prestazioni ambientali, con la Sardegna che si pone come tra le realtà virtuose a livello nazionale, ed efficienza in termini di costi: in Sardegna la spesa per la gestione dei rifiuti, circa 176 euro per abitante, è superiore ai 151 euro del Centro-Nord, nonostante vi sia una minore produzione di rifiuti per abitante e una percentuale simile di raccolta differenziata.

I fattori di crescita e sviluppo

 Non sono positivi i numeri sull’istruzione e la formazione: nel 2015 appena il 18,6% dei sardi tra 30 e 34 anni ha conseguito un titolo di studio universitario o equivalente. Il dato è tra i più bassi in Italia (solo Sicilia e Campania fanno peggio) e molto distante dalla media europea (38,7%) e ancor più dall’obiettivo della Strategia 2020 dell’Unione Europea fissato al 40%. Anche la quota di laureati nelle discipline tecnico-scientifiche (17,8%), un buon indicatore della disponibilità di individui altamente qualificati e potenzialmente disponibili a lavorare nel campo della ricerca e sviluppo, resta molto distante dalla media europea (32%). Andiamo malissimo per quanto riguarda l’abbandono scolastico: la situazione sembra in leggero miglioramento nell’ultimo quinquennio, ma nel 2015 il 23% dei sardi tra i 18 e i 24 anni ha interrotto il proprio percorso scolastico e formativo  fermandosi alla licenza media. Il divario rispetto alla media nazionale (15%) è molto ampio: la Sardegna è al penultimo posto tra le regioni italiane (davanti alla Sicilia) e al 240esimo posto su 254 regioni europee. Il dato più preoccupante è sicuramente quello sui Neet, i giovani tra 15 e 24 anni che non studiano, non lavorano e non cercano un impiego: negli ultimi cinque anni sono aumentati di 3 punti percentuali dal 2011, raggiungendo il 27% nel 2015.
Un ulteriore pesante ritardo della Sardegna si registra sul fronte degli investimenti in ricerca e sviluppo: con il nostro 0,82% del Pil siamo ben lontani dall’obiettivo del 3% fissato dalla Strategia Europa 2020 (in Italia la media è dell’1,38%, in Europa del 2,4% di quella europea. Il peso degli investimenti privati in questo campo in Sardegna è molto basso (5,9%) rispetto alla media nazionale (58,3%) e a quella europea (64,6%). Debole anche la quota di occupati nei settori high-tech, che nel 2015 in Sardegna si attesta all’1,6% (superiore solo a Puglia e Calabria), valore inferiore alla media europea (4%) e italiana (3,4%). Un segnale di incoraggiamento arriva dalle imprese sarde che partecipano al mercato elettronico: nel 2016 il 17% delle imprese sarde con almeno 10 addetti ha effettuato vendite on-line, valore superiore alla media nazionale (11%) e vicino a quella europea (20%).

Il turismo

Aumenta il numero dei turisti in Italia e in Sardegna: il 2016 registra un 10% in più per arrivi e presenze, soprattutto straniere. I dati definitivi Istat indicano per il 2015 circa 2 milioni e 610 mila arrivi e 12 milioni e 393 mila presenze. Germania, Francia, Svizzera e Regno Unito si riconfermano i principali paesi di provenienza dei turisti stranieri, aumentano anche gli arrivi da Paesi Bassi, Regno Unito e Svezia e diminuiscono i turisti russi. Ancora lontano il sogno di destagionalizzare il turismo: la metà dei visitatori arriva tra luglio e agosto, l’84% da giugno a settembre, mentre i turisti stranieri scelgono l’Isola anche in primavera e autunno. Dal lato dell’offerta, nel 2015 aumentano le strutture ricettive e i posti letto (in entrambi i casi +2,6%). Nota dolente è il tasso di occupazione delle strutture: 22% per le strutture alberghiere e 9,1% per quelle extralberghiere (dati inferiori alla media italiana ma in linea con quelli delle regioni competitor italiane: Sicilia, Puglia e Calabria). La ragione di questo basso utilizzo delle strutture rispetto al potenziale è attribuita alla forte stagionalità dei flussi che, come noto, è una delle caratteristiche delle destinazioni orientate al turismo marino-balneare. Basti pensare che le strutture vengono utilizzate per il 54% nel mese di agosto e solamente per l’1% nei mesi di gennaio e di dicembre.

Fr. Mu. 

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